"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Quella mattina in classe essi furono coinvolti nella gioia del docente che narrava come, nel 1936, riordinando alcuni frammenti di papiro tra quelli trovati ad Ossirinco conservati nella biblioteca John Rylands, C.H. Roberts, un professore di Oxford, si imbattè in un estratto dal Vangelo di Giovanni.
La cosa che fece scalpore fu che - sulla base e dal confronto con gli studi sulla lingua della koinè dei testi biblici condotti dal prof. Deissmann anni prima - si potè constatare apertamente la precocità della stesura del Vangelo di Giovanni, anticipandola addirittura ad epoca traianea (98/117 d.C.).
Ma perché questa, che poteva apparire come una questione di tipo puramente accademico, infiammava in tal modo i giovani seminaristi di Venegono, tanto che Giussani, anni e anni dopo, ancora rammentava la loro felicità nel correre fuori al termine di quella lezione?
Semplicemente perché in quegli anni, sommandosi alla grave crisi del modernismo, vero e proprio attacco attraverso un'esegesi di stampo positivistico, dal mondo protestante giungeva la pretesa 'demitizzazione' della fede ad opera di Bultmann.
Secondo lui, e la sua 'Storia delle forme', occorreva distinguere tra il kèrigma, o annuncio estraibile dalle parole di Cristo, dalla sua vicenda storica, togliendone dalla Scrittura la sua dimensione 'umana'.
Il presupposto era quello di una 'collettività che crea' un'immagine destinata a fare 'evento', ma un evento che rimane pura immagine.
In poche parole, la storia di Gesù è prodotta della coscienza collettiva della Chiesa successiva agli anni del suo passaggio sulla terra, un'elaborazione creativa di una semplice comunità storica.
È evidente - in questa ottica - come il Gesù della storia delle forme non abbia alcuna realtà di persona, di storia e di carne, e, insomma, non se ne possa intravvedere la biografia.
La storia delle origini della Chiesa è un 'evento' della comunità, che mediante strutture di creazione collettiva, si regola secondo la storia di un qualunque immaginario religioso.
Il Cristo della fede non ha alcun riferimento al fatto storico come fatto, non si macchia con il reale.
È a questo livello che la scoperta di un documento che può essere considerato praticamente 'contemporaneo' ai fatti narrati, smonta il postulato di una narrazione postuma fatta da un gruppo che ne creò il 'mito'.
Sembra una piccola cosa, ma in realtà è una sconvolgente conferma di un fatto che ha tutto lo spessore dell'avvenimento: la nascita e incarnazione di Dio in uno spazio ed in un tempo concreto, qui su questa Terra, "fatto dell'altro mondo, in questo mondo".
Per i ragazzi che studiavano da sacerdoti, questo era una bella conferma di tutto quello che stavano mettendo in cantiere, scegliendo di donarsi ad un Fatto accaduto tanto tempo prima...
Un fatto realmente accaduto, non frutto di fantasie o di speculazioni ardite di chissà chi.
Questo la Chiesa aveva in fin dei conti sempre creduto e su questo si era fondata, magari a livello inconscio, indubbiamente la stessa scelta di entrare in seminario.
Questo, però, in questo squarcio di epoca, andava 'ridimostrata' …
Non è certo fondamentale per la Chiesa, e per la coscienza di fede dei cristiani, la 'documentazione scientifica': è più che sufficiente infatti la Tradizione che, dai tempi di Cristo, non si è mai interrotta. Tuttavia, la conferma è utile quando stuoli di 'sapienti' portano critiche e attacchi alla fede, magari pensando di 'purificarla' dalle scorie accumulate dal 'passaparola' dei nostri antenati.
E questa era la scuola di Venegono.
E questa fu l’eco che Giussani seppe farcene giungere.
Nella Chiesa cattolica postconciliare, - e per questo le accuse di 'integrismo' e altre amenità non mancarono mai al Movimento fondato da don Giussani, almeno fintanto che esso si occupò di questioni di fede - la 'Storia delle Forme' purtroppo però venne accolta, anche se in maniera moderata, ma pur tuttavia sostanziale.
Gli esegeti cattolici hanno ritenuto che la tesi di una trasmissione che raggiungeva il fondatore del Cristianesimo e ritrovava persone alle origini degli eventi e degli scritti che costituiscono il Nuovo Testamento fosse conforme, più che altro, ad un pregiudizio da sacrificare in nome del metodo 'storico-critico'.
Possiamo capire quanto sia vero questa influenza in seno cattolico, se ripensiamo alle parole - sconcertanti - pronunciate poco tempo fa dal Superiore Generale dei Gesuiti, Arturo Sosa Abascal, secondo il quale "ai tempi di Gesù mica esistevano i registratori e quindi come possiamo essere certi di quanto si dice che abbia detto proprio Lui?"
Come spiega bene G. Baget Bozzo, "a differenza del Protestantesimo il Cattolicesimo non può astrarre le verità di fede dalle verità fattuali, storiche. Perché il Cattolicesimo non è innanzitutto un docetismo o uno gnosticismo esso non può semplicemente non includere la storia nell'annuncio di fede".
Questo in Giussani e nei suoi compagni di Venegono per quanto giovani era chiaro perfettamente e sempre lo resterà negli anni a venire. Quando Giussani parla di Avvenimento sta appunto combattendo - non si sa quanto consapevolmente - la grande battaglia della fede cristiana contro la protestantizzazione della fede.
La storicità della figura di Cristo (che, là dove non esistevano i registratori, riusciva a trapelare comunque, come abbiamo visto, dai frammenti di papiro di Ossirinco), è la certezza che i nostri rapporti con Dio non si basano su uno schema di nostra fabbricazione, su una nozione meramente speculativa, ma pervengono a recepire la positività di ciò che ci sta di fronte come un fattore positivo, da accettare così come è.
Secondo J. Ratzinger è proprio così, partendo da dei 'dati' che non siano opera nostra o della nostra 'creatività', che si può realizzare 'la quadratura del cerchio', ossia "dimostrare l’intrinseca necessità dell’apparente casualità" del cristianesimo.
La parola 'avvenimento' viene quindi da lui impiegata per descrivere una tassatività, un impegno che ci derivi dall’esterno, anche se, per noi, ogni cosa che non derivi dalla nostra 'interiorità', è sempre così ostica e sconcertante.
Il casuale derivante dall'esterno diventa, qui, un dato necessario all'uomo: di fatto, solo attingendo dall'esterno, l'uomo è in grado di aprirsi al suo interno.
La parola 'incontro' tanto amata da Giussani, assolve a questa funzione: far comprendere che l'avvento 'in incognito', di Dio che si presenta in veste di uomo nella storia, deve attuarsi, così, per necessità intrinseca della libertà stessa.
Questa apparente contraddizione tra 'necessità' e 'libertà' è ciò che - a mio avviso - meglio descrive quel concetto di 'incontro', incontro che, chi ha conosciuto don Giussani e il suo Movimento, non può non aver fatto a sua volta.
Un amico, un fatto: un incontro, appunto, in cui ognuno è incappato in un determinato momento della propria vita, casuale in quanto a forma, ma ridondante di significato, in quanto a provocazione per la propria libertà.
E proprio qui viene messa a fuoco la peculiare modalità della rivendicazione cristiana, quella che essa è tenuta ad accampare di fronte alla storia delle religioni, per esempio, se vuol tener fede a sé stessa, come dice Ratzinger.
Il problema è che - anche in chi sostiene questa linea di chiarezza - non tutto è perfettamente chiaro.
La secolarizzazione della teologia e della fede giunge, nel postconcilio, anche attraverso altri canali, di cui il principale era la rivendicazione della parola 'comunità'.
La comunità essa, e non le persone, diveniva il soggetto ecclesiale per eccellenza.
Se a questo 'essere comunità' non veniva apertamente attribuito di essere la 'creatrice' della Figura di fondo, cioè Cristo, come nella protestantica Storia delle forme, sicuramente lo squilibrio verso il concetto di 'appartenenza' come garanzia della verità del contenuto di fede, può ipotecare gli 'appartenenti' ad una sorta di docetismo evangelico: Dio interviene veramente - se noi non stiamo assieme, non facciamo tutti certe determinate cose assieme, in questo mondo?
A rispondere - se non ben percepita nella sua caratteristica di 'metodo', come spiegava Montini nel 63’ - è allora la parola 'esperienza': la certezza che Dio esiste ci può giungere da una 'esperienza' di qualcosa che ce ne renda certi.
Se se ne usa disinvoltamente, l'esperienza può pervenire ad una 'sensibilità' moderna della verifica dei fatti con il metro del 'tutto e subito', di una speranza sbandierata come immediata soddisfazione dei propri bisogni, infine di un riscontro 'pratico' del valore della fede. Soprattutto abusando della parola felicità (spesso confusa con un vero e proprio eudemonismo).
Quante coppie dentro le varie comunità - fuori poi non ne parliamo… - sono scoppiate, constatando amaramente che non si appaga - nel tran-tran quotidiano seguito alla luna di miele - la 'promessa' (ma che tipo di promessa può venir mai esaudita più di tanto da due esseri umani?) di felicità?
Spesso, almeno fino ad un certo periodo, Giussani critica il modo pedissequo di partecipare alla 'comunità', di vivere 'l’esperienza' cristiana.
In un incontro del 1977, a Viterbo, con gli insegnanti dice: "Per molti di noi che la salvezza sia Gesù Cristo e che la liberazione della vita e dell'uomo, qui e nell'al di là, sia legata continuamente all’incontro con Lui, è divenuto un richiamo 'spiritualistico'.
Il 'concreto' sarebbe altro: l'impegno sindacale, far passare certi diritti, l'organizzazione, i nostri gruppi di lavoro e, perciò, le riunioni. Tutto ciò, non tanto come espressione di esigenze di vita, quanto piuttosto come mortificazioni della vita, peso e pedaggio da pagare ad un'appartenenza che ci trova tutti ancora inspiegabilmente in fila.
L'inizio per ognuno di noi fu una provocazione di una promessa da seguire. Ma poi abbiamo affidato la continuità di questo inizio ai discorsi, alle iniziative, alle riunioni, alle cose da fare. Non l'abbiamo affidato alla nostra vita, così che l’inizio ha cessato presto di essere verità offerta alla nostra persona ed è divenuto una specie di associazione, una realtà su cui scaricare la responsabilità del proprio lavoro e dalla quale pretendere la risoluzione delle cose, dei nostri problemi”.
Per inciso - pur dissentendo da altri rilievi da lui fatti - abbiamo sentito, ancora dopo tanti e tanti anni, evidenziate dal Papa, ieri in piazza San Pietro, durante l'udienza concessa a CL per i cento anni dalla nascita del Fondatore, le stesse criticità persistere.
A mio avviso è qui la tragica contraddizione di fondo di tutta l’opera di Giussani.
Quella difficoltà a proporre 'contenuti' - come diceva papa Ratzinger al Plenum della CEI nel 2010 - rilevata come tipica un po’ di tutti di un modo di vivere la Chiesa contemporanea - riducendoli a 'motivazioni'.
Se così non fosse stato anche per Giussani, non potremmo spiegarci il rigetto semifurente, anni fa, di una domanda, a lui rivolta, da uno che partecipava ad una Fraternità, riguardo la priorità da attribuire alla 'comunione' intesa come comunità, o alla 'comunione' intesa come Eucarestia.
È stato uno dei frequenti momenti in cui si evidenziava il 'pasticcio sulla scala dei valori', a Giussani ipotizzato come rischio, nel lontano 1963, dal cardinale Montini.
Un pasticcio che possiamo leggere come esplicativo e chiarificatore di 'pasticci' seguiti negli anni successivi, come - per citarne solo uno - le condanne per truffa e corruzione, per un totale di 15 anni di galera, di due membri del suo Movimento.
Membri da Giussani portati come esempio di comprensione corretta di cosa fosse il Movimento di CL e veri modelli da seguire.
Si badi bene, non è questione di non voler ammettere che tutti siamo fragili e che tutti possiamo sbagliare.
No.
Non è questa la questione.
La questione è che Giussani ha favorito un'ignoranza crassa circa la conoscenza dei 'contenuti' della fede cristiana, arrestandosi sempre e comunque ai 'preambula' della fede: appunto il 'senso religioso'.
Esaltando l'innegabile importanza del richiamo all'avvenimento, inteso come incontro non previsto e gratuito con qualcuno che ci ha illustrato una speranza di significato nella nostra vita, ha subliminalmente, ma costantemente, creato le condizioni per la riduzione di questo incontro.
Non è possibile vivere nessun tipo di incontro con nessuno, in particolare con Cristo se all'emozione del primo momento, non segue un'esortazione continua e costante all'elaborazione dell'intelligenza del Mistero incontrato.
Intendo dire - ma lo dice anzitutto papa Benedetto XVI - che non basta una per quanto affascinante Apologia della fede (il Famoso Senso religioso), cioè una difesa delle ragioni per cui vale la pena credere, ma occorre una Mistagogia, una intelligenza accompagnata alla comprensione di questa Fede.
La cosa principale perché questo accada è la carità di insegnare che, senza la Liturgia ed i Sacramenti, la professione di fede manca totalmente della Grazia necessaria perché le 'motivazioni' non producano solo frutti di generosità, in coloro che generosi si sentono… e per tutti diventino contenuti responsabilmente assunti.
E proposti come testimonianza.

(immagine: Mario Giacomelli, Io non ho nessuno che mi accarezzi il volto, 1953/63)