"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Tu, che abiti la nostra debolezza

(Udienza generale 14 Giugno 2012)

Aprire la nostra mente ed il nostro cuore alla Presenza del Signore, alle Sue parole, alla Sua azione dipende dall’incontro quotidiano con Lui, dalla frequenza ai sacramenti.

La preghiera infatti non è solo ‘respiro dell’anima’, ma oasi di pace in cui possiamo attingere l’acqua che alimenta e permette alla nostra vita di essere trasformata.
E Dio ci attira verso di sé, ci fa salire il monte della santità perché siamo sempre più vicini a Lui, offrendoci lungo il cammino luci e consolazioni.
Questa è l’esperienza personale a cui san Paolo fa riferimento nel cap.12 della Lettera ai Corinzi.
Di fronte  chi contestata la legittimità del suo apostolato, egli non elencava tanto le comunità che aveva fondato, i chilometri percorsi; non si limita a ricordare le difficoltà e le opposizioni che ha affrontato per annunciare il suo Vangelo, ma indica il suo rapporto con il Signore.
Un rapporto così intenso da essere caratterizzato anche da momenti di estasi, di contemplazione profonda.
Non si vanta quindi di ciò che ha fatto lui, della propria forza, attività e successi, ma si vanta esclusivamente dell’azione che Dio ha fatto in lui e tramite lui.
San paolo continua dicendo che proprio per non montare in superbia per la grandezza delle rivelazioni ricevute, egli porta in sé una spina, una sofferenza, e supplica con forza il Signore di liberarlo dall’inviato del Maligno, da questa dolorosa spina nella sua carne.
Per tre volte dice che ha pregato e in questa situazione riceve risposta: ”Ti basta la mia grazia”.
Il commento di Paolo può lasciare stupiti ma rivela appieno cosa significhi essere apostolo del Vangelo.
Esclama infatti così:” Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo.
Mi compiaccio delle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo.
Infatti quando sono debole, è allora che sono forte”.

(…)

San paolo è ben consapevole di essere “un servo inutile” - non è lui che ha fatto le cose grandi, è il Signore -  “un vaso di creta”, in cui Dio pone la sua ricchezza e la potenza della sua Grazia.
Nel momento in cui si sperimenta la propria debolezza, in realtà si manifesta la potenza di Dio, che non abbandona, non lascia soli, ma diventa sostegno e forza.
Certo Paolo avrebbe preferito essere liberato da questa spina, dalla sua sofferenza, ma Dio dice: ”No, questo è necessario per te. Avrai sufficiente grazia per resistere e per fare quanto deve essere fatto”
E questo vale anche per noi.
Il Signore non ci libera dai mali, ma ci aiuta a maturare nelle sofferenze, nelle difficoltà, nelle persecuzioni.
La fede, quindi, ci dice che se rimaniamo in Dio, “Anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, ci sono mille difficoltà, l’uomo interiore, invece si rinnova, matura di giorno in giorno. E proprio nelle prove”.
In realtà non era leggero affatto il peso delle difficoltà di Paolo, anzi era gravissimo.
Ma in confronto con l’amore di Dio, con la grandezza di essere amato da Dio, ecco che appariva leggero, sapendo infatti che la quantità di gloria sarà smisurata.
Anche noi, nella misura in cui cresce la nostra unione con il Signore e si fa intensa la nostra preghiera, andiamo all’essenziale e comprendiamo che non è la potenza dei nostri mezzi, delle nostre virtù, delle nostre capacità che realizza il Regno di Dio, ma è Dio che opera meraviglie proprio attraverso la nostra debolezza, la nostra totale inadeguatezza all'incarico, qualunque esso sia.
Affidarsi a Lui come fragili vasi di creta è allora contemplare il Signore.
E per di più solo la fede, il confidare nell’azione di Dio, nella bontà di Dio che non ci abbandona è la garanzia di non lavorare invano.
Nella preghiera noi apriamo il nostro animo a Dio affinché Egli venga ad abitare la nostra debolezza.
Trasformandola in forza per l’annuncio della Sua Verità.
Questo ‘abitare’ ha un ricco significato nel termine greco usato da Paolo: episkenoo, che potremmo rendere con ‘porre la propria tenda’.
Il Signore continua a porre la sua tenda in noi e in mezzo a noi: è il mistero dell’Incarnazione.
Lo stesso Verbo divino che è venuto a dimorare nella nostra umanità, vuole abitare in noi, piantare in noi la sua tenda.
Per illuminare e trasformare la nostra vita ed il mondo.
Ma contemplare il Signore è allo stesso tempo affascinante e tremendo.
Affascinante: perché Egli ci attira a sé e rapisce il nostro cuore verso l’alto, portandolo alla sua altezza dove sperimentiamo la pace, la bellezza del suo amore.
Tremendo: perché mette a nudo la nostra debolezza umana, la nostra inadeguatezza, la fatica di vincere il Maligno che sempre insidia la nostra vita.
Nella preghiera quindi e nella contemplazione quotidiana del Signore noi riceviamo la forza dell’amore di Dio e sentiamo che sono vere le parole di san Paolo ai cristiani di Roma:”Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio  che è in Cristo Gesù Signore nostro”.