"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Un Santo alle prese con i Gesuiti

Dal volume “Testimone della speranza”, George Weigel, Le Scie Mondadori, Milano 1999 (pagg. 526-534)

UN SANTO ALLE PRESE CON I GESUITI.

Ieri come oggi: problemi
Poco dopo il ritorno autunnale da Castel Gandolfo, dove aveva trascorso la convalescenza, Giovanni Paolo II intervenne nel governo dell’Ordine religioso maschile più prestigioso della Chiesa, la Compagnia di Gesù.
Il 5 Ottobre 1981 nominò Paolo Dezza SJ, suo ‘delegato personale ’alla guida dei gesuiti, affiancato da Padre Pittau SJ, come vice.

Era una decisione senza precedenti, che chiudeva anni di tensione fra il Vaticano e la Compagnia, una decisione  con la quale il Papa sfidava i gesuiti a rinnovare radicalmente la loro specifica vocazione.
Accogliendo nel XVI secolo
La proposta di Ignazio di Loyola di costituire una comunità religiosa d’élite, caratterizzata da fervore spirituale, intelletto, coraggio, spirito di corpo, abnegazione ed assoluta lealtà al papato, la Chiesa cattolica aveva corso un rischio di non poco conto.
In qualsiasi organizzazione complessa le élites sono fonte di grattacapi: gelosie, fazioni, intrighi, lotte di potere, tutte difficoltà che la Chiesa del resto conosceva già bene prima della Controriforma.
Ora , però, puntando sui gesuiti, essa faceva una scommessa di altro tipo: scommetteva che  un Ordine religioso autonomo, autoperpetuantesi e consapevolmente  elitario, non sarebbe partito per la tangente, entrando in un’orbita dottrinale e disciplinare diversa, perché quell’Ordine sarebbe rimasto vincolato all’autorità della Chiesa con il cordone ombelicale del suo particolare voto di obbedienza al Vescovo di Roma.
Se quel cordone si fosse allentato o spezzato, un’élite che era il fiore all’occhiello della, Chiesa, avrebbe potuto trasformarsi in una conventicola indipendente , a parole legata all’autorità ecclesiastica, ma nella realtà convinta di essere autorizzata dalla sua superiore intelligenza e rettitudine morale a percorrere una strada autonoma.
Nella storia del cattolicesimo ogni grande carisma racchiude in sé la sua particolare tentazione.
La tentazione francescana è una spiritualità sdolcinata, che è l’esatto opposto dell’abbraccio amoroso di san Francesco a tutte le creature.
La tentazione domenicana è l’arido intellettualismo, che rappresenta la corruzione delle finalità di san Domenico, il quale intendeva creare una compagnia di predicatori di grande forza intellettuale.
I benedettini seguaci della regola dettata da san Benedetto nel VI secolo, fanno voto di stabilità, vincolandosi a restare nel medesimo monastero tutta la vita: la tentazione di questo ordine è lasciare che la stabilità degeneri in autocompiacimento.
La tentazione dei gesuiti è diventare un’élite autoreferenziale, che , immaginandosi più illuminata dell’autorità della Chiesa, ritenga di non dover più rendere conto a quella autorità.
Era accaduto questo alla Compagnia di Gesù negli anni del dopo concilio?
I dirigenti internazionali della Compagnia smentivano seccamente, ma alcuni gesuiti erano molto preoccupati dall’andamento del loro ordine.
Essi mettevano in evidenza i cambiamenti drastici intervenuti nella formazione dei giovani e sostenevano che l’educazione impartita nei loro seminari offuscava lo smalto intellettuale della Compagnia, sostituendo al rigorismo preconciliare, a volte eccessivo, un lassismo disciplinare ed uno psicologismo soffocante, tollerando modi di vita quasi indistinguibili da quelli dei laici, quando non addirittura censurabili.
Questi gesuiti, preoccupati dell’andamento della Compagnia erano uomini che credevano nella dottrina sociale della Chiesa ed in alcuni casi ne erano gli esponenti più capaci.
Tuttavia erano convinti che il gesuita Fernando Cardenal,SJ, avesse messo a repentaglio la sua vocazione sacerdotale  e dimostrato una discutibile capacità di discernimento, assumendo la direzione assumendo la direzione del programma di alfabetizzazione nicaraguense alle dipendenze di un regime che si autoproclamava marxista-leninista.
Deploravano la posizione filoabortista del gesuita Robert Drinan, SJ, deputato per il Massachusetts alla Camera dei rappresentanti statunitense, e si chiedevano perché le gerarchie della Compagnia di Gesù ignorassero queste nuove forme di clericalismo politico.
Alcune facoltà di Teologia della Compagnia, sparse in varie parti del mondo, che un tempo erano famose per la loro ortodossia estremamente rigorosa, ora stavano dilatando le frontiere della speculazione teologica in modi aspramente criticati da altri teologi, compresi alcuni tra gli stessi gesuiti.
Prestigiosi intellettuali della Compagnia di Gesù non si davano ormai più pensiero di contestare pubblicamente le dottrine della Chiesa e la saggezza dei suoi maestri ufficiali.
I numeri non raccontano mai l’intera storia di una comunità, ma qualcosa dicono.
Nel 1965, alla conclusione del Concilio, i gesuiti erano 36mila; nel 1975 erano scesi a 29mila, in parte perché erano diminuite le vocazioni, in parte perché molti avevano abbandonato l’ordine.
Il calo proseguì costante per tutti gli anni Settanta e gli anni Ottanta (con alcune eccezioni, come l’India), ma i gesuiti restarono comunque una delle comunità religiose più influenti della Chiesa cattolica.
Da quando era nata, la Compagnia era sempre stata all’avanguardia e la strada che aveva imboccato dopo il Concilio Vaticano II sembrava a molti quella del futuro.
L’11 Dicembre  1978 il Preposito generale dei gesuiti, Pedro Arrupe, un basco carismatico che era a capo della Compagnia dal 1965, ebbe la sua prima udienza con il Papa e fece promessa di obbedienza in nome del suo ordine.
Dieci mesi dopo, in occasione della riunione provinciale dei padri provinciali convocati per fare il punto sulla situazione internazionale  della Compagnia, padre Arrupe invitò Giovanni Paolo II a parlare ai convenuti.
Il santo Padre pronunciò un messaggio duro che lasciò tutti sgomenti.
Poiché il tempo era poco, disse, non si sarebbe soffermato sui tanti meriti della Compagnia e sarebbe venuto subito al dunque:
“Voglio dirvi che siete stati cagione di preoccupazione per i miei predecessori e lo siete per il Papa che vi parla”.
E, non contento di queste parole franche, spedì a padre Arrupe la copia di un discorso molto critico che Giovanni Paolo I non aveva fatto in tempo a rivolgere ai vertici della Compagnia, dicendo di condividerne ogni parola.
Padre Arrupe aveva cominciato già, nel mese di Giugno del 1979, ad accennare privatamente ai quattro assistenti generali- i suoi massimi consiglieri- ad un possibile ritiro.
Sosteneva di essere stato eletto ad vitalitatem, non ad vitam- cioè finché avesse avuto vitalità non vita- e lui si sentiva calare le forze.
Sei mesi dopo il 3 gennaio 1980, Arrupe chiese udienza al pontefice per fissare una riunione, alla quale avrebbero dovuto partecipare anche i suoi assistenti, per illustrargli i progetti futuri della Compagnia e per confrontarli con le finalità del papato.
Giovanni paolo II dichiarò la sua disponibilità ma non una data precisa.
Arrupe continuava a meditare di dimettersi e nel febbraio 1980 disse ai suoi assistenti generali che ormai aveva preso la decisione ed era sereno.
La prima settimana di marzo  chiese di esprimere un parere formale sulle sue dimissioni, sostenendo che l’età costituiva motivo sufficientemente grave come richiesto dallo statuto della Compagnia.
Passata la settimana di rito gli assistenti convennero che   i motivi erano validi e il più anziano, padre O’Keefe, SJ, lo comunicò ad Arrupe.
Come prevede la procedura furono allora consultati gli 85 padri provinciali di tutto il mondo, che diedero in maggioranza parere favorevole.
Ora non restava che convocare la Congregazione generale, cioè il supremo organo legislativo della Compagnia, alla quale spettava di accettare o respingere le dimissioni.
Arrupe illustò la procedura a Giovanni Paolo II nell’udienza privata del 18 aprile 1980.
O’keefe l’aveva come al solito accompagnato, ma questa volta dovette attendere fuori della porta.
Padre O’Keefe era inquieto: Arrupe che era un ottimo parlatore, a suo avviso, davanti al papa diventava ‘come un bambino’, e gli tremavano le gambe.
Giovanni Paolo II si disse sorpreso che la discussione sulle dimissioni fosse già così avanti e chiese ad Arrupe in quale momento, ammesso  che ce ne fosse uno, era previsto l’intervento del Pontefice.
Arrupe spiegò che lo statuto della Compagnia non lo prevedeva affatto, benché fosse invalsa l’abitudine di informare il Papa del progetto di convocare una Congregazione generale e di discuterne con lui.
Allora Giovanni Paolo II domandò a padre Arrupe che cosa avrebbe fatto se gli avesse chiesto di non dimettersi.
Arrupe replicò che il Papa era il suo superiore.
Giovanni Paolo II chiuse l’udienza dicendo che avrebbe meditato sulla questione e poi gli avrebbe scritto.
La lettera arrivò il Primo Maggio 1980.
Per il bene della Compagnia e per il bene della Chiesa, il papa invitava Arrupe a non dimettersi e a non convocare la Congergazione generale.
Al suo ritorno dall’africa, proseguiva il Pontefice, egli avrebbe aperto u dialogo per risolvere la questione.
Sentendo queste parole gli assistenti generali ne dedussero che finalmente sarebbero stati ricevuti dal papa, ma non era questo che Giovanni Paolo II aveva in mente.
Il 30 dicembre tre degli assistenti generali, i quali non erano ancora riusciti a fissare una data per il loro incontro con il Papa insieme ad Arrupe, misero il Pontefice alle strette nella loro sede accanto alla chiesa del Gesù dove il Papa aveva da poco terminato di celebrare la tradizionale  messa di fine anno con la comunità dei gesuiti di Roma.
Il Papa era appena entrato nella casa dei gesuiti con Arrupe che voleva presentargli i giovani gesuiti, quando gli assistenti gli si fecero incontro, dicendo:”Santità,noi siamo il consiglio di padre Arrupe; siamo noi che le abbiamo scritto e speriamo che lei abbia tempo di incontrare il preposito generale  perché non sappiamo più cosa fare”.
Giovanni paolo II replicò:”Sarà presto”.
Mentre  il Papa si allontanava, monsignor Dziwisz assicurò ad Arrupe che l’udienza si sarebbe tenuta presto.
In effetti si svolse il 17 gennaio 1981, ma non approdò a nessuna conclusione.
Intanto la stampa italiana continuava a parlare di spaccature: fra Giovanni paolo II ed Arrupe, fra il Vaticano e la Compagnia di Gesù, oppure entrambe le cose.
Il Papa ed il preposito generale ebbero un nuovo colloquio il 13 aprile 1981.
Giovanni paolo II disse di essere preoccupato per le decisioni che la Congregazione generale avrebbe potuto prendere qualora non fosse più diretta da Arrupe.
(I favoriti erano padre O’Keefe e padre Calvez ma poi la XXXIII Congregazione generale avrebbe potuto affrontare qualsiasi altra questione)
La XXXII Congregazione del 1974 era stata motivo di grande apprensione per Paolo VI e l’attuale Papa evidentemente, temeva che la situazione potesse diventare ancora più esplosiva in una assemblea non guidata da padre Arrupe.
Il generale dei gesuiti negò che la XXXII Congregazione avesse sfidato Montini e ribadì la sua convinzione in una lunga lettera al Pontefici nei giorni seguenti.
Il Papa concluse l’udienza rassicurando padre Arrupe che il dialogo sarebbe proseguito.
Un mese dopo ci fu l’attentato.
Il 7 agosto, mentre tornava da un viaggio nelle Filippine, Arrupe ebbe un malore all’aeroporto internazionale Leonardo da Vinci di Roma e fu ricoverato all’ospedale Salvator Mundi.
I medici gli diagnosticarono una paralisi al lato sinistro del cervello e a quello destro del corpo.
Padre O’Keefe gli somministrò l’estrema unzione e informò il cardinal Casaroli.
Il segretario di stato Vaticano desiderava andare a visitare Padre Arrupe ma O’Keefe disse che i medici avevano raccomandato di evitare qualsiasi emozione per timore di un nuovo attacco.
Il 10 agosto tre degli assistenti generali furono informati dai medici che Arrupe era in grado di intendere e capire le decisioni e quindi recatisi al suo capezzale gli chiesero se intendeva nominare un vicario generale con pieni poteri per guidare la Compagnia durante la malattia.
Arrupe fece capire di sì.
Gli chiesero se aveva in mente qualcuno.
Il Prepposito generale indicò O’Keefe.
Il cardinal casaroli e i padri provinciali dei gesuiti furono immediatamente informati che Arrupe come prevedeva l’articolo 787 dello statuto della Compagnia, aveva nominato O’Keefe vicario generale per tutta la durata della sua infermità.
Due settimane dopo O’Keefe e gli altri assistenti furono convocati dai medici dell’ospedale e informati che Arrupe non avrebbe più dovuto occupare posti di responsabilità.
Comunque ora il malato era in grado di ricevere Casaroli.
Il segretario di stato passò a rendere O’Keefe nella sede dei gesuiti e assieme andarono all’ospedale.
Durante il percorso O’Keefe tentò di ottenere da casaroli il consenso per convocare la Congregazione generale, ma Casaroli cambiò discorso.
Quando arrivarono, il segretario di stato chiese all’assistente di leggere a padre Arrupe una lettera personale del Papa, nella quale si diceva vicino al generale dei gesuiti, convalescente come lui, augurandogli di guarire presto.
Al ritorno O’Keefe fece di nuovo pressione su Casaroli perché ricordasse al Papa la necessità di convocare la Congregazione generale..
Casaroli disse di inviargli una lettera.
Il 3 settembre la lettera era pronta.
O’Keefe vi esponeva i motivi dell’incapacità di Arrupe e sosteneva che in quelle circostanze il compito del vicario era di convocare la Congregazione generale.
Siccome però era proprio questo che Giovanni paolo II aveva chiesto ad Arrupe di non fare, O’Keefe spiegava che la situazione in cui e gli altri assistenti si trovavano era affatto nuova.
Una copia del messaggio fu inviata a tutti i provinciali.
La soluzione però non fu quella prevista.
Il 6 ottobre , mentre O’Keefe era in riunione, il segretario di Arrupe venne informato che aveva telefonato Casaroli chiedendo di vedere il padre generale, che era stato dimesso dall’ospedale ed ora era nell’infermeria della Casa della Compagnia.
Il vicario chiese se il cardinale desiderasse parlare anche con lui e la risposta fu:”No, non necessariamente”.
O’Keefe diede disposizioni per essere avvertito dell’arrivo di Casaroli e lo intercettò prima che entrasse nella stanza di padre Arrupe.
Casaroli gli comunicò che voleva parlare in privato con Arrupe e O’keefe aspettò davanti alla porta. Dopo un quarto d’ora Casaroli lo chiamò perché non riusciva a capire  quello che il malato diceva.
Entrando O’ Keefe notò alcune carte sopra un tavolino.
Ascoltò con molta attenzione le parole del suo superiore e poi spiegò a Casaroli che Arrupe aveva chiesto di fissare un incontro fra il cardinale e padre Dezza, cosa che O’Keefe si accinse a fare immediatamente.
Fece accomodare Casaroli in un salottino, convocò Dezza e quindi tornò nell’infermeria.
Il preposito generale gli indicò i fogli sul tavolino.
Era una lettera di Giovanni Paolo II con la quale il Papa nominava Dezza, che stava per compiere ottant’anni, suo ‘delegato personale’ a guidare la Compagnia fino a nuovo avviso, affiancato come coadiutore o vice, da padre Giuseppe Pittau, SJ, ex-rettore dell’Università Sophia di Tokyo e provinciale dei gesuiti in Giappone.
Lo statuto di governo della Compagnia di Gesù era sospeso e non ci sarebbe stata nessuna convocazione immediata della XXXII Congregazione generale.
O’Keefe rimase ‘stordito’ e chiese ad Arrupe:”Qual è la posizione del vicario generale”?
“Non lo so” Fu la risposta.
“Va’ a parlare con Dezza”.
O’Keefe illustrò la situazione agli altri assistenti generali e nel pomeriggio ebbe un colloquio con padre Dezza, da cui seppe che era in arrivo una letera del Papa.
Il problema più immediato per O’Keefe era come informare la Compagnia.
Il generalato dei gesuiti e il Vaticano decisero di comune accordo di tenere segreta la notizia per tutto il mese di ottobre fino a che tutti i gesuiti del mondo non fossero informati personalmente.
Ma verso al fine di ottobre la notizia fu pubblicata da un giornale spagnolo e ripresa dalla stampa italiana.
Allora padre Dezza, accogliendo il consiglio di O’Keefe, emanò un comunicato ufficiale.
Per i Gesuiti fu il più grande trauma della loro storia dal tempo in cui Clemente XIV aveva sciolto la Compagnia nel 1773.
(Queste stesse parole ripeté l’attuale occupante del soglio di Pietro nella famosa prima intervista alla Republica di Scalfari. Una curiosità: Clemente XIV era un …francescano. Nota mia)
L’intervento del Papa suscitò le ire di tutti quelli che avevano gradito la direzione di Arrupe e avrebbero voluto che continuasse  con il suo successore.
Ma la teoria di costoro, secondo cui tutta la questione non fosse altro che uno spaventoso equivoco nato da un’interpretazione distorta di quanto era realmente accaduto durante la Congregazione del 1974, non persuade.
Gli ordini religiosi erano entrati in crisi nel periodo postconciliare.
Può anche darsi che Giovanni Paolo II non considerasse la situazione dei gesuiti peggiore di altre, ma la loro influenza era tale che egli ritenne necessario un periodo di riflessione.
Se non avesse tenuto in gran conto il prestigio della Compagnia e la sua capacità di contribuire ad un’applicazione autentica del Concilio egli come disse ai padri Dezza e Pittau, non sarebbe intervenuto.
La sua fu una bella terapia d’urto che si proponeva di mettere fine agli scontri all’interno della Compagnia e fra la Compagnia e le più alte autorità ecclesiastiche, in modo da creare le condizioni per nuovi rapporti basati su maggiore fiducia.
Evidentemente il Papa non riteneva che la XXXIII Congregazione presieduta da padre O’Keefe potesse raggiungere tali obiettivi.
Era un cambiamento drastico di cui né O’Keefe né gli altri tre assistenti sentivano la necessità, come si capisce chiaramente dalle pressioni che essi esercitarono sul Pontefice per ottenere il permesso di riunire la Congregazione generale finché le redini del potere erano nelle stesse mani che la reggevano da anni, vale a dire le loro.
Il punto ora era vedere come avrebbero reagito i gesuiti e se la terapia sarebbe riuscita a risolvere il malessere che Giovanni Paolo II, e non solo lui, aveva diagnosticato.
(A noi posteri l’attuale sentenza…nota mia)