Le ho incontrate nel luogo che frequento da sempre, ma che - negli ultimi devastanti anni - è diventato abituale più di qualunque altro: i libri.
Si chiamano Oljia, Anja e Matrjiona. Tutte russe. La prima me l’ha presentata la Berberova - ne “Il corsivo è mio”, la seconda e terza, Solzenitsjn.
Spesso prego per loro, mancate ormai da lungo tempo, verso la metà del secolo scorso, come fossero altre mie mamme o zie o amiche di vecchia data.
Queste donne sono state, e continuano ad essere ai miei occhi, l’incarnazione di quanto dapprima non si pensa neppure per un attimo come lontano altro da noi; perchè cosí quotidiano, ordinario così al limite del banale, cosí ovviamente a disposizione nostra.
E poi - improvvisamente - eccolo di entrare di colpo proprio quanto non si riesce a credere che non ci sia più, sia proprio lontano e imprendibile, ormai.
Ciò che esse rappresentano per me, altro non è che l’esser donna, l’essere madre.
Proprio quell'esser donna e madre così ovvio, scontato, abituale per tutti noi .
Penso a loro quando, sulla scena del Tempo che passa, vedi che quanto hai dato a piene mani, ancora ti strappa da te, da ciò che è più tuo e - nel frattempo - quelli in funzione dei quali hai dato così tanto ti riconosce ormai più.
Hanno il potere - Oljia, Anja e Matrjiona - di continuare a trattenere il Tempo come se la profondità, la totalità del loro essere state donne e madri perforasse le cortine dell'oblìo e della morte.
Come potessero sconfiggere il troppo tardi con cui coloro che le avevano incontrate e amate se ne siano resi conto. Oljia che ha preso l’uomo di un’altra nel momento in cui la malattia e l’usura della frequentazione aveva spinta quella a lasciarlo. Oljia che è grata di raccogliere per sé l’avanzo dell’amica e si dedica giorni ed ore al capezzale fino a che - ebrea - colta dalla retata nazista mentre gira Parigi per le medicine, con un bacio pieno di gratitudine saluta la ex del suo amore, capitata lì per caso, giusto in tempo per vederla portar via, e - quasi vergognosa - osa chiedere di farle avere, lì dove andrà, un po’di biancheria .
Matrjiona, quella del raccontino “La casa di Matrjiona” è la padrona della vecchia isba piena di scarafaggi dove risiede Soltzenitsjn, appena uscito dai lunghi anni di lager.
E non aveva più altro nella vita che la sua vecchia casa. Ma torna un personaggio mai appagato nella sua rabbia per averla vista sposare il proprio fratello anni e anni prima e - con la scusa di diritti ereditari - si appropria della parte di isba che gli viene in conto e gliela strappa, dopo averla legata ad un trattore, tronco per tronco trascinandola via.
Lei per seguire la sua casa spezzata e curarla nel dislocamento, con l’amore che non può negarle, quella è infatti comunque la sua casa, nel preoccuparsi che essa non si incagli sui binari della ferrovia, saltellandole attorno, inciampa lei nei binari. E proprio mentre passa il treno.
Anja , di Solgenitzijn era la mamma.
E lui è un uomo fatto quando si accorge che Lei, che si è messa a lavorare come serva una volta vistosi uccidere il marito, per allevare tutta sola in un casottino miserrimo suo figlio, farlo studiare e diventare quel genio che diventerà, ecco, lei, suo figlio la lascerà morire di fame - durante la guerra - quando, avendo lui, ufficiale dell’Armata Rossa, le tessere alimentari, preferirà inviarle alla moglie - piena di capricci e parenti - e che, poi, lo lascerà, negandole, invece, a colei che al mondo non aveva che lui, la propria madre.
“Lo scarto di un invisibile compasso” direbbe Proust, quanto mai rapido e furtivo, si insinua tra i pensieri e i nostri palpiti del cuore, ed ecco... mentre le crediamo vicine, le cose, le nostre cose, più già non sono.