"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Non è che capiti un prima - per quanto rapido - ovvero un attimo di riconoscimento oggettivo di quanto compiuto e vissuto. A questo scopo sappiamo tutti bene come si attivi egregiamente la volontà, strategicamente adoperata, per un bel “no, io non voglio vedere, sapere”.
Nel caso in questione, che non cessa di sbalordirmi, c’è da subito, immediato ed automatico, un io che prima ancora di sapere cosa nega, nega. Nega per principio.
Per questo tipo di “io“, strutturato sulla negazione, negare è come respirare.
Per questi individui il carpe diem di buona memoria, diventa l’unica scelta, ma nel senso di agguantare tutto, giusto per non scegliere.
Per poi negare, occorre scegliere qualcosa che poi la negazione difenda.
Chi vive negando, sceglie di non scegliere e, così facendo - in un’apparenza di godimento dell’istante - in realtà vive fuggendo. Una fuga infinita, defaticante.
La spinta, questa fuga, la trova attraverso la negazione. Che trova scuse. Ma mai chiede scusa. E si chiama paura.
Paura che, col suo continuo chiudersi porte alle spalle, travolge ricordi, memorie, cose e persone che vorrebbero restare a consolarci, a dirci chi siamo.
Un uomo che ha vinto la paura può confessare senza falso pudore il suo bisogno di un vecchio cucchiaio, portato con sé attraverso i giri strani della vita.
Poi - tra l’altro - dedicandosi e appassionandosi a trattenere cose e avvenimenti, anziché relegarli dietro mille menzogne difensive, vince pure un Nobel. Quello di quest’anno.

“Felice chiunque abbia i propri luoghi della durata!
Egli, anche se venisse portato lontano
Senza prospettive di ritorno nel suo mondo,
Non sarà piú un esule“.