Come quando per l’effimero privilegio grazie al quale nel breve istante del nostro ritorno, davanti alle cose, anche le più amate non è presente che il testimone, l’osservatore, l’estraneo.
Per Proust questo accadeva dinnanzi alle persone amate che - di solito - “non vediamo se non dentro il sistema animato, il moto perpetuo della nostra incessante tenerezza, la quale, prima di lasciare che le immagini proiettate dai loro volti giungano sino a noi, le attrae nel proprio vortice, le fa ricadere su ciò che da sempre ne pensiamo, le fa aderire a questa idea , le fa coincidere con essa”.
Accade - a me è accaduto - anche con le cose.
Soprattutto quando - grazie all'abbandono delle persone non sono rimaste che le cose.
È accaduto - a me è accaduto- entrando nel portone della mia vecchia casa: ho rilevato soprattutto la presenza di due cacche di cane, non ripulite come da sue mansioni ordinarie, dal custode.
Che, invece stazionava in guardiola, la moglie riportata di recente dal Paese, deferentemente a tre passi di distanza, nell'angolo.
Ho salutato, ritirato la posta e me ne sono andata.
Incredibilmente nessun sussulto di nostalgia, nessuna emozione particolare: solo la presa d’atto di due cacche che lordavano il marciapiede e rendevano penoso varcare la soglia.
Ero stata preceduta dalla mia assenza.
Il “vortice della tenerezza” non ha fatto a tempo a risucchiare le solite mura dentro di sé rendendosi specchio del passato e così impedendo di “trascurare ciò che, di una cosa/persona, solo, concorre ad illustrarcene il fine”.
Un fine, entrando lì, ormai non ci sarà più.
Quando ”la nostra pia ed intelligente tenerezza è impedita di accorrere in tempo per nascondere ai nostri sguardi ciò che essi non dovrebbero/vorrebbero mai contemplare, quando cioè quella è preceduta da questi: i quali, arrivati per primi sul posto e lasciati a se stessi, funzionando meccanicamente, come pellicole fotografiche, ci fanno vedere, al posto dell’essere amato che non esiste più da tempo, ma di cui la tenerezza ci aveva sempre impedito di scoprire la morte, l’essere nuovo, così difforme da quello che cento volte al giorno essa soleva rivestire d’una dolce e menzognera sembianza”.
E anche la casa amata non è più che - sorprendentemente - altro che una entrata in mattoni prospiciente un paio di cacche.
Più terribile, ma non sostanzialmente differente, quando gli sguardi precedono la tenerezza nell'accorgersi in maniera fotografica di una o più persone care.
Per esempio, quando capita che deliberatamente questa persona cara decida che - essendo essa allo stretto nel proprio minuscolo cuore, come è quello di un figlio viziato - tu in questo cuore sia diventato un ingombro.
Per Proust è stato lo scoprire in un salotto nuovo di una abitazione nuova, la nonna accasciata dagli anni e dalla malattia.
Con suo sofferto stupore, “come un malato che non guardandosi da molto tempo e invece continuando a comporre quel volto che non vede sulla base dell’immagine ideale che ne conserva nel pensiero, indietreggia se scorge in uno specchio, nel mezzo di un volto arido e deserto, la sopraelevazione obliqua e rosata d’un naso gigantesco come una piramide d’Egitto”, non era più possibile illudersi che la nonna fosse quello che sempre era stata, cioè “altri che sé stesso.
L’aveva vista sempre e soltanto nella sua anima, “sempre allo stesso posto nel passato, attraverso la trasparenza di ricordi contigui e sovrapposti”, mentre ora, grazie allo scarto di estraneità offerto dal contesto della nuova abitazione, lì, nel nuovo salotto, per la prima volta vede sul canapè, rossa, pesante e volgare, malata, perduta in chissà quali fantasticherie, gli occhi un po’ folli vaganti oltre le pagine d’un libro, una "vecchia donna prostrata” che non conosceva.
Se il nostro sguardo precede impietosamente noi stessi non occorre davvero molto per scoprire che la persona amata, ovvero la casa, che un tempo “non era altri che te stesso “, è solo una persona, ovvero una casa, qualunque.
Con - talora - due cacche davanti.
(foto: Vivian Maier)