Secondo il datario del cellulare con cui l’ho scattata, l’ultima foto di una bella camminata in un posto aperto e panoramico, risale infatti al 27 Febbraio.
La tragedia che abbiamo e stiamo vivendo, era già in atto, se pure sottotraccia.
Non mi va proprio di ripercorrere le martellanti e distopizzanti notizie che - a caterve - il servizio, pubblico e non, ci ha inflitto nell'arco di questi due mesi infiniti.
Scrivo solo per festeggiare la centesima volta che - convinta che a qualcuno (ai tempi dicevo Patrizia, probabilmente ora nemmeno più lei), oltre me - possa interessare quanto vado esprimendo, mi accingo all'opera.
Già, perché di opera, per me, trattasi.
È un’opera, infatti, pensare che - se pur non in linea coi diktat e la vulgata ufficiale degli ambienti cui appartengo - io possa permettermi di pensare e di voler dire la mia.
Senza canali o protettori in vista che assecondino, è una pura fatica di Sisifo, ma se rifletto bene, tutta la vita - almeno per chi ha avuto e custodisce ancora un ideale - pare essere un un’unica, immane fatica di Sisifo.
Quel Sisifo della mitologia greca che a mia madre piaceva tanto citare ai propri figli quando li vedeva incamponirsi in qualche sforzo–ai suoi occhi di ‘adulta’ - esilarante e improvvido.
Ebbene sì: Sisifo mi sta simpatico e ho sempre tifato per lui e per i nerd come lui e me.
Avendo sfiorato l’argomento ‘mamma’, ecco che mi attraversa la mente l’idea di dedicarla proprio a lei, la centesima volta che mi siedo per "sisifare" un ‘articolo’.
Cara mamma, di cui ho imparato - un po’ tardi a dire il vero - a decifrare le lacrime che frequenti ti solcavano il viso: non era perché avevi litigato per l’ennesima volta con papà.
No, oggi, a 20 anni dalla tua morte - ripeto, un po’ tardi - lo so con chiarezza.
Tu - sensibile come madre natura ti aveva fatta - piangendo altro non facevi che offrirti come polo terminale della vibrazione cosmica - remota 13,8 miliardi di anni - che prorompendo dal Big Bang, ha generato il nostro meraviglioso Cosmo.
Mi spiego: dovendo sopravvivere ad un lockdown estenuante, in un buco di casa per di più, non poteva bastarmi guardare le cartoline o le fotografie dei posti belli in cui ero stata nel tempo che fu, per evadere un po’, almeno con la fantasia.
Ha cominciato ad essermi appena sufficiente l’Universo, di cui le supernove e la nostra galassia mi sembrano ormai il minimo comun denominatore per anche solo iniziare a discutere di me, di noi, di questa Terra, del virus, di tutto.
Così, ho letto e scoperto della vibrazione cosmica e del fatto che, al di là dell’estrema suddivisione dell’atomo a cui sia possibile giungere, non resta più altro che energia…
Energia vuol dire quanto, ed i quanti non sono - per fortuna, almeno loro- propriamente misurabili e collocabili in un elenco cartesiano di vicende.
L’energia, ancora in fase di espansione, e che esplode sotto forma di pianto, quando non può farlo attraverso altre vie non concesse, ecco che questa è ormai per me la spiegazione del suo pianto di mamma.
Forse… del pianto di ogni mamma!
Per di più, di questa stessa energia non misurabile in centimetri o ettogrammi è fatto il colore…
Ogni elettrone infatti che decade da un ‘orbita ad un’altra mentre ruota attorno al suo nucleo, lascia traccia in una scia di colore …
Una sinfonia di colori quando tu, mamma, mi inondavi il cappuccino, che io - da figlia modello - avevo pensato di offrirti sedute al bar, per regalarti un po’, solo un po’, di quella gratitudine che sapevo di doverti, nonostante tutto quello che hai sempre combinato. A cominciare dalla fettina lessa, mai una volta ai ferri come Dio comanda.
Sembrava pianto dirotto da sconforto, e invece era una pura e semplice questione di elettroni che ti cadevano fuori dalle orbite di pertinenza!
Queste lacrime, trasformate ormai ai miei occhi in tavolozza di colori, nel primo giorno che mi concedo di libertà quasi vera, se pur dietro una mascherina irritante ed urticante, e un paio di guanti in latex da chirurgo assassino, sono arcobaleni…
Finalmente, come ora ammiro i colori delle lacrime di mia mamma, ho ammirato il cielo tutto blu, non da dietro i vetri di una finestra.
Poi è accaduto che, mentre - tutta stupita che le case ci fossero ancora, che i semafori lampeggiassero ancora, che qualcuno addirittura si parlasse ancora, se pur a distanza, questa sì, cosmica - camminavo, riflettevo che avrei dovuto scrivere il centesimo articolo, e - per festeggiare - ho deciso di comperare una scatola di matite colorate!
Dovevo comperare uno shampoo, a dire il vero, ma le matite erano lì, e così ho comperato loro.
Cosa ne farò?
Non so proprio: in questo buco dove vivo, senza per ora nessuno dei miei effetti personali, se anche ho le matite, mi manca tutto il resto: album, fogli da disegno, libri dei miei bambini di vent'anni fa, che io ancora custodisco e che, di tanto in tanto, coloro io al posto loro, loro che si sono dimenticati di farlo.
Volevo festeggiare la libera uscita, le lacrime che son colori e il centesimo articolo. E così non ho trovato di meglio che comperarmi le matite colorate.
Naturalmente, ora che le matite giacciono qui accanto, sul tavolo dove scrivo, non posso né voglio negare che la speranza sottintesa potesse essere quella espressa da Tom Hanks alla sua corrispondente misteriosa in “C’è posta per te”.
Un’ idea - a detta sua - romanticissima: “Hai mai visto - le chiedeva - come è bella New York in Autunno con tutti quei colori? Mi viene voglia di regalarti un mazzo di matite ben temperate”.
Non è Autunno. E non è New York.
Ma è un dettaglio.