Il grosso problema sarà come convincere i bufali - abituati a stare da anni e anni in uno zoo - che la vita è bella al di fuori delle proprie gabbie.
Mi ha colpito, al limite della pura commozione, questo dilemma del bufalo.
È veramente una tragedia, spesso foriera semplicemente di morte come spiegava la voce fuori campo, dopo lo zoo, la libertà.
E, naturalmente, se mi commuovevo guardando i cornuti animalacci deposti amorevolmente - dopo 1200km di strada chiusi in un carro bestiame - nella loro free zone, era per la impressionante assonanza con vicende assolutamente analoghe, però umane.
C’era una volta Sabina Ciuffini, ai tempi che eravamo bambini e Mike Bongiorno presentava il Rischiatutto.
Questa stessa valletta, anni dopo ripescata in non so più quale intervista, parlando di come con sua figlia piccola - sempre capricciosa al momento di fare la pappa e capace di sbattere costantemente il contenuto del piatto giù dal seggiolone - avesse adottato il metodo di tenerle bloccate, con le sue, le mani incrociate davanti al piatto.
Notava l’ex valletta che un bel dì la bimba, prima ancora che iniziasse il rito della pappa, autonomamente, al momento di essere posta sul seggiolone, incrociava da sola le manine, ‘ammanettandosi’ spontaneamente.
Notevole era lo stupore che il gesto generava nella madre, ma, in fin dei conti, la bambina non faceva altro che dimostrare il suo attaccamento, il suo bisogno di essere conforme ai desideri della madre e, perciò, di tenerci al legame.
La ‘forma’, mani legate o libere: puro dettaglio.
Il legame: il solo scopo.
Ogni cosa che facciamo, costretti o meno, si struttura per aiutarci a rispondere alle attese di chi per noi è prezioso, financo fosse il nostro carceriere, o fredde sbarre di una gabbia da zoo.
Non è l’ideale - la libertà - che anticipa, spinge, sulle scelte.
Ma il bisogno disperato di amore e di protezione.
L’attesa di una conferma.
Bisonti o bambine di buona famiglia che si sia, la libertà è, per lo più, un concetto anomalo.
È bella la libertà, ma senza legami che la qualifichino, ci risulta quasi minacciosa.
Un contenitore vuoto dentro cui è più facile certamente perdersi che dentro pochi metri quadrati cinti di sbarre in una gabbia di zoo.
Se questo spiega il perché del ‘popolo bue’ che ben conosciamo e sperimentiamo per farne tutti in qualche modo parte
(pensiamo alle precauzioni con cui chiunque si muove nell’ipotesi che un’idea, anche saggia e brillante, se manifestata possa contrastare o creare imbarazzo al gruppo di appartenenza), forse non ci rendiamo conto quanto questo imponga una precisa qualifica - ‘delirio’ è il termine esatto - a infinite pratiche di relazione umana.
Son quasi certa che i bisonti non vadano soggetti al delirio con la frequenza con cui le relazioni umane invece lo manifestano.
Il delirio è tutto nostro, di noi umani ed è lui il vero nostro vicino della porta accanto.
È ciò che, qualora le gabbie del nostro zoo si dovessero aprire senza troppo preavviso, noi sceglieremmo quasi in automatico per difenderci e tutelarci dalla minaccia di disgregazione che il nostro mondo interno, lo scrigno segreto dei nostri più profondi bisogni, pare dover subire.
Spesso e più di quanto si creda, l’apertura delle porte dello zoo (quel luogo dove non si spazia per valli e radure, ma dove il cibo e il confort sono assicurati) è la sola risposta a nostra disposizione per conservare quello stesso cibo e confort che ci vediamo sottratti dallo slancio altruistico (spesso menefreghistico, di licenziamento vero e proprio) che ispira l’altro nei nostri confronti.
Si scatena una ridda di valutazioni che porta a ritenere che il nostro carceriere o guardiano dello zoo fosse dotato addirittura di intelligenza e volontà interessata e vera nei nostri confronti …e si fantastica che non ci custodisse per suo puro vantaggio.
Addirittura, ci si autopunisce per aver costretto l’atro a fare una cosa così orrenda: liberarci.
Vagando mentalmente coi bisonti là sui Carpazi, dove qualcuno - che di essi non nutriva nessun interesse - ha deciso di abbandonarli - pardon: liberarli - proviamo la stessa sensazione di precarietà assoluta, di prossimità alla morte di cui - con incolore tonalità - il commentatore televisivo relaziona l’alta percentuale di possibilità.
E accadono le cose più starne. Non ai bisonti, per fortuna.
Ma agli umani fuoriusciti dalle gabbie sì.
Taluno si autoelimina.
Talaltro si consuma.
Talaltro ancora instaura precarie, strambe ma tenaci relazioni che - come descrive Mélanie Klein - devono evitare la regressione schizofrenica.
Il delirio appunto.
Si chiama fissazione libidica la quale, generata dalla paura sconfinata generata dalla relazione mal vissuta con un padre, lascia perdere la natura delle cose e della sua massima espressione, l’amore, invertendo chi è lui e chi è lei.
Staccati a forza, ma incollati ad un oggetto da cui non ci si può staccare.
Nonostante le profferte di libertà.
‘Il rischio del bisonte’, il quale - a quanto pare - però se la cava benissimo.
Lì, tra i bisonti sui Carpazi, hanno potuto constatare che lui rimane lui e lei rimane lei.
La prova è Valentina, la bisontina - ce l’ha fatta a non morire chi è lui e a non morire chi è lei - nata in libertà.
Robe da Carpazi, naturalmente.