Vecchie, antiche, recenti, dell'altro ieri.
In ogni caso questo fermo immagine produce degli effetti collaterali non indifferenti su chi deve compiere l’ingrata operazione di ricollocarle…
Il Tempo, lui per primo, col suo modo sfuggente di proporsi, induce a dubitare che mai, in qualsivoglia luogo, quel che è stato si possa più collocare.
Pertanto, meglio smettere subito di pensare di poterle collocare, le fotografie.
Sono esse che collocano noi.
I mondi che, essendo quelli del nostro ieri, credevamo ingenuamente di conoscere non aiutano… nulla è più là.
L’oggi, attraverso lo sgomento per aver dovuto andarsene da casa propria, fa parlare il prima con un linguaggio che non è più comprensibile.
Così si sposta di parecchi gradi in latitudine e longitudine anche la memoria del passato che queste benedette foto, sparse sul tavolo dinnanzi a noi, vorrebbero testimoniare.
Tutto era così… ma anche no.
Noi, oggi, crediamo di essere così, ma, invece, anche no…
La notizia è che, sempre, nonostante tutto, qualcosa rimane.
Rimane che noi, che stiamo osservando, per quanto sballottati ed esterni alla rappresentazione, in realtà in qualche modo, siamo ancora e sempre quella cosa rappresentata là.
Ti vedi abbracciata a tua madre e, senza che te ne possa rendere conto, sei ancora abbracciata a quella madre nonostante da anni giaccia ormai sotto metri di terra.
Lo sei adesso perché, diversamente da quanto cattivi maestri hanno preteso insegnarci dalla metà del secolo scorso ad oggi, l’avanzare del tempo non comporta qualcosa di assolutamente nuovo, ma è sempre e solo il processo in cui la memoria prende coscienza di sé stessa.
La memoria mi dice: tu sei, esisti - non foss'altro perché soffri - e così tu noi non sei mai solo quello che l’attimo fuggente aspira a farci credere di essere.
Commercialmente è molto proficua una massa di individui che non conserva nulla e getta tutto via dopo un giorno o due.
Proficua solo per alcuni.
Tutti gli altri, ci ritroviamo solo con un gran problema di spazzatura in eccesso.
Se questo attimo fuggente eletto a criterio dirimente, è lesivo della dignità di noi piccole creature umane, figuriamoci quando diventa criterio per parlare del senza Tempo, dell’Infinito.
Cioè di Dio.
Come dice Ratzinger in “Punti di orientamento cristologico”:” L’uomo non è in grado con le sue forze di istituire il rapporto con la divinità. Egli sa che non può costringere la divinità ad un rapporto con sé. In termini concreti questo significa che le modalità del rapporto con Dio devono essere ricondotte- attraverso la tradizione della sapienza degli ‘antichi’- ad una iniziativa della divinità, mediata nell’ambito di una comunità che la trasmette.
In questo senso, per essere vera, la religiosità deve basarsi su di un’autorità superiore a quella della nostra semplice ragione.”
Proprio partecipando alla messa Novus ordo come si è venuta ulteriormente configurando in tempi recenti (ai tempi del coronavirus, per esempio , la massima preoccupazione di preti, sacristi e beghine è - nei confronti di chi aspirerebbe a partecipare alle celebrazioni - la pulizia ossessiva delle mani (disinteressandosi più che mai di quella dell’anima), o - da parte del celebrante - pensando bene di inserire nel canone: “e adesso mi accingo a disinfettarmi le mani prima di consacrare le Specie, prima di dare la Comunione, ecc.”) , si rileva come l’inserimento nella fede cattolica del “trascendentale moderno” è ormai metabolizzato dall'organismo Chiesa, per via di prassi, bypassando la consapevolezza di una via teoretica.
Continuo a suggerire la lettura delle parole dei cardinali Ottaviani e Bacci a Paolo VI, quanto mai profetiche riguardo il nostro oggi. Un oggi che - è Del Noce a dircelo -, incarnando un messianismo banalizzato dal quotidiano, ci fa assistere ad una consunzione tranquilla, in un inesorabile processo di estenuazione della nostra Fede.
IV - L'essenza del Sacrificio
Il mistero della Croce non vi è più espresso esplicitamente, ma in modo oscuro, velato, impercepibile dal popolo (9). Eccone le ragioni:
- Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta «Prex eucharistica» è:
«ut tota congregatio fidelium se cum Christo coniungat in confessione magnalium Dei et in oblatione sacrificii». (n.54 - fine).
Di quale sacrificio si tratta?
Chi è l'offerente?
Nessuna risposta a questi interrogativi.
La definizione in limine della «Prex eucharistica» è questa:
«Nunc centrum et culmen totius celebrationis initium habet, ipsa nempe Prex eucharistica, prex scilicet gratiarum actionis et sanctificationis» (n. 54, pr.).
Gli effetti sono dunque sostituiti alle cause, di cui non si dice una sola parola. La menzione esplicita del fine dell'offerta, che era nel Suscipe, non è sostituita da nulla. Il mutamento di formulazione rivela il mutamento di dottrina.
- La causa di questa non-esplicitazione del Sacrificio è, né più né meno, la soppressione del ruolo centrale della Presenza Reale, così lampante prima nella liturgia eucaristica.
Ve ne è una sola menzione - unica citazione, in nota, dal Concilio di Trento - ed è quella che si riferisce alla Presenza Reale come nutrimento (n. 241, nota 63).
Alla Presenza Reale e permanente di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità nelle Specie transustanziate non si allude mai.
La stessa parola transustanziazione è totalmente ignorata.
La soppressione della invocazione alla terza Persona della SS.ma Trinità (Veni sanctificator), onde scendesse sopra le oblate, come già discese nel grembo della Vergine a compiervi il miracolo della Divina Presenza, si inserisce in questo sistema di tacite negazioni, di degradazioni a catena della Presenza Reale.
L'eliminazione poi:
- delle genuflessioni (non ne restano che tre del sacerdote e una, con eccezioni, del popolo, alla Consacrazione);
- della purificazione delle dita del sacerdote nel calice;
- della preservazione delle stesse dita da ogni contatto profano dopo la Consacrazione;
- della purificazione dei vasi, che può essere non immediata, e non fatta sul corporale;
- della palla a protezione del calice;
- della doratura interna dei vasi sacri;
- della consacrazione dell'altare mobile;
- della pietra sacra e delle reliquie nell'altare mobile e sulla «mensa», quando la celebrazione non avvenga in luogo sacro (la distinzione ci porta diritti alle «cene eucaristiche» in case private);
- delle tre tovaglie d'altare, ridotte a una sola;
- del ringraziamento in ginocchio (sostituito da un grottesco ringraziamento di preti e fedeli seduti, in cui la Comunione in piedi ha il suo triste compimento);
- di tutte le antiche prescrizioni nel caso di caduta dell'Ostia consacrata, ridotte a un quasi sarcastico «reverenter accipiatur» (n. 239);
tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l'implicito ripudio della fede nel dogma della Presenza Reale.
- La funzione assegnata all'altare (n. 262).
L'altare è quasi costantemente chiamato mensa (10). «Altare, seu mensa dominica, quæ centrum est totius liturgiæ eucharisticæ» n. 49, (cfr. 262).
Si specifica che l'altare deve essere staccato dalle pareti perché vi si possa girare intorno e la celebrazione possa farsi verso il popolo (n. 262);
si precisa che esso deve essere il centro della congregazione dei fedeli così che l'attenzione si volga spontaneamente ad esso (ibid.).
Ma il confronto fra i nn. 262 e 276 sembra escludere nettamente che il SS.mo Sacramento possa essere conservato su questo altare. Ciò segnerà una dicotomia irreparabile tra la presenza, nel celebrante, del Sommo ed Eterno Sacerdote e quella stessa Presenza realizzata sacramentalmente.
Prima esse erano un'unica presenza (11).
Ora si raccomanda di conservare il SS.mo in un luogo appartato, ove possa esplicarsi la devozione privata dei fedeli, quasi si trattasse di una qualsiasi reliquia, sicché entrando in chiesa non sarà più il Tabernacolo ad attirare immediatamente gli sguardi ma una mensa spoglia e nuda.
Si oppone ancora una volta pietà privata a pietà liturgica, si drizza altare contro altare.
Nella raccomandazione insistente di distribuire nella comunione le Specie Consacrate nella stessa Messa, anzi di consacrare un pane di grandi dimensioni (12), così che il sacerdote possa dividerlo con una parte almeno dei fedeli, è ribadito lo sprezzante atteggiamento verso il Tabernacolo come verso tutta la pietà eucaristica fuori della Messa: altro strappo violento alla fede nella Presenza Reale sinché durino le Specie consacrate (13).
- Le formule consacratorie.
L'antica formula della Consacrazione era una formula propriamente sacramentale, e non narrativa, indicata soprattutto da tre cose:
- il testo della Scrittura, non ripreso alla lettera: l'inserto paolino «mysterium fidei» era una confessione immediata di fede del sacerdote nel mistero realizzato dalla Chiesa per mezzo del suo sacerdozio gerarchico;
- la punteggiatura e il carattere tipografico: vale a dire il punto fermo e daccapo, che segnava il passaggio dal modo narrativo al modo sacramentale e affermativo, e le parole sacramentali in carattere più grande, al centro della pagina e spesso di diverso colore, nettamente staccate dal contesto storico. Il tutto dava sapientemente alla formula un valore proprio, un valore autonomo;
- l'anamnesi («Haec quotiescumque feceritis in mei memoriam facietis», che in greco suona: «eis ten emou anamnesin» - «volti alla mia memoria»), si riferiva a Cristo operante e non alla semplice memoria di lui o dell'evento: un invito a ricordare ciò che Egli fece («hæc... in mei memoriam facietis») e come Egli lo fece, e non soltanto la sua persona o la cena.
La formula paolina oggi sostituita all'antica («Hoc facite in meam commemorationem») - proclamata quotidianamente nelle lingue volgari - sposta irrimediabilmente, nella mente degli ascoltatori, l'accento sulla memoria del Cristo come termine dell'azione eucaristica, mentre essa ne è il principio.
L'idea finale di commemorazione prende ben presto il posto dell'idea di azione sacramentale (14).
Il modo narrativo è ora sottolineato dalla formula: «narratio institutionis» (n. 55d), e ribadito dalla definizione della anamnesi, dove si dice che «Ecclesia memoriam ipsius Christi agit» (n. 55c).
In breve: la teoria proposta per l'epiclesi, la modificazione delle parole della Consacrazione e dell'anamnesi, hanno come effetto di modificare il modus significandi delle parole della Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora pronunciate dal sacerdote come costituenti una narrazione storica e non più enunciate come esprimenti un giudizio categorico e affermativo proferito da Colui nella cui persona egli agisce: «Hoc est Corpus meum» (e non: «Hoc est Corpus Christi») (15)
L'acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la Consacrazione: («Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc.… donec venias») introduce, travestita di escatologismo, l'ennesima ambiguità sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l'attesa della venuta seconda di Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è sostanzialmente presente sull'altare: quasi che quella, e non questa, fosse la vera venuta.
Ciò è ancor più accentuato nella formula di acclamazione facoltativa n. 2 (Appendix): «Quotiescumque manducamus panem hunc, et calicem bibimus, mortem tuam annuntiamus, Domine, donec venias»; dove le diverse realtà di immolazione e manducazione, e quelle di Presenza Reale e Secondo Avvento del Cristo, raggiungono il massimo di ambiguità (16).