Dedico questo scritto a Carmela.
Donna stupenda di 88 ani conosciuta mentre ancora era impegnata in missione in Africa.
Un’amicizia nata soltanto sul finire della sua e (forse) mia vita, fondata su ripetuti momenti a tavola assieme, sulla comune preghiera e su ben poco altro.
Certamente sulla reciproca stima.
Poi, ecco che, ieri, improvvisamente lei mi manda via WhatsApp una sua foto da ragazza: una bellezza emozionante come solo le spagnole possono vantare.
E io mi sono chiesta: “Perché”?
Perché improvvisamente mi manda questa foto di lei da giovane?
Avevo già in mente di pubblicare questo articoletto dedicato alla ‘vecchiaia’, frutto delle meditazioni che io stessa e alcuni amici mi hanno provocato ultimamente.
Poi… è arrivata Carmela…
Io - nel risponderle le ho inviato una mia foto a dieci anni con la bambola Susanna appena regalatami per il compleanno- non ho potuto non pensare: “Desiderio che non sia finita? Che la vita, i suoi doni, la giovinezza e la sua bellezza, più si avvicina l’ultimo giorno e più non siano per noi solo dei vaghi ricordi, dei furti che la vita ci ha costretto a subire, ma qualcosa? Sì! Qualcosa che rimanga!”.
Carmela - forse: è un mio pensiero, nulla più - sente (ad multos annos Carmela!) avvicinarsi il momento di salutarsi per sempre e più si affaccia il desiderio che non sia la fine, che non sia stato solo un bel sogno quello che abbiamo vissuto.
E donato.
Perché questa donna tanto era bella lei, e tanto ha donato di questa sua bellezza, che, non essendo affatto solo esteriore, è stata una bellezza donabile e da donare a tutti coloro che ha incontrato. Dalla Spagna all’Africa, dal suo focolare, al mondo.
Qualcosa, la parte migliore, Carmela, rimane.
La tua foto per ora rimane a me e la custodisco nel mio cuore. Ma rimane ancor più forte il desiderio di dirti che non solo ‘qualcosa’ ma tutti noi restiamo perché come dice Ratzinger:” Ciò che è contingente, la nostra fragilità e provvisorietà, ha una necessità che abbraccia e oltrepassa la mera relazione con l’attimo fuggente.
L’essere - il durare, il permanere - è - grazie alla Resurrezione di Cristo - il luogo del divenire.
Ciò che è reale, solo inadeguatamente può essere espresso dalla figura meramente cronologica di ciò che ‘viene dopo ’ che ‘passa’.
La storia è un presente costruito sulla memoria, sul ricordarsi. Ma il nostro ricordare (la bellezza sfiorita, i nostri cari che più non sono, le cose perdute seppure tanto amate) ha valore e senso grazie al ricordo che ne ha Dio. L’anamnesi umana è accolta nell'anamnesi di Dio: Dio la ricorda ed essa, nel Suo ricordo, ha la sua unità e la sua promessa”.
Sul finir dell’Estate abbondano i pensieri carichi di nostalgia e di senso della fine.
Finisce una stagione e chi è un po’ avanti nell'età presente la propria fine, sempre più prossima.
Poi, ti vengono a trovare gli amici - non più giovanissimi - che attendevi con ansia da lungo tempo ed ecco, è tutto un rimpiangere il tempo passato e un racconto di come tentare di ‘accalappiare’ quel che resta di più importante, i figli.
Li si accalappia, innanzitutto da quel che sento e vedo, ‘lasciandosi accalappiare’ e, poi, proprio anche sollecitandolo questo nostro accalappiamento da parte loro.
Pare che dimostrando - o tentando di dimostrare - di essere utili e importanti loro ad ogni costo, anche a quello di essere apertamente usati.
Cosa che avviene spesso e volentieri all'interno delle cosiddette ‘storie d’amore’, peraltro…
Ma in realtà non è che un defilarsi da noi stessi. Noi stessi che mai abbiamo voluto incontrare da vicino, nemmeno prima, nel fiore della nostra gioventù.
Ma… se la fine altro non è che il compimento dell’opera - secondo quanto diceva san Tommaso parlando della “fine del mondo” - perché la nostra di fine, cioè il compimento dell’opera della nostra vita, dovrebbe essere solo un ingombrante fardello, carico di vergogna e desiderio inespresso, da recare sulle nostre povere spalle?
È davvero passata così tanta acqua sotto i ponti da quando essere anziano significava addirittura garanzia?
Garanzia per lo Stato - come si legge qua sotto-ma anche per chi si fregia del titolo di ‘giovane’.
Certo, sul palcoscenico della ‘politica’ attuale è diventato un titolo di vanto e di accreditamento la recente iscrizione anagrafica.
Proprio per questo motivo mi viene nostalgia di quando eravamo nei banchi di scuola.
E non - almeno, non soltanto - perché eravamo giovani e aspettavamo lo squillo della campana per correre via a compierne di ogni, bensì perché tra una assemblea e l’altra, tra una cotta e l’altra, ebbene: sì! ancora studiavamo qualcosa: Cicerone per esempio.
Per affetto e per desiderio di svegliarmi dal brutto sogno in cui la terza età imposta da chissà chi come categoria esistenziale vuole sigillare gli individui, oggi do spazio a lui, Cicerone.
Per la precisione al suo De senectude.
Felice che - un tempo - a scuola, tra le altre cose, si studiava.
Dai vecchi libri di scuola:
Scipione, il giovane: “Spesso o Catone mi sono stupito del fatto che non mi hai mai dato la sensazione di vivere la vecchiaia come un peso.
Catone: Davvero non è un’impresa difficile. Chi infatti non abbia dentro di sé risorse per vivere bene e felice subisce il peso di tutte le età; chi invece trae da sé stesso ogni bene non può considerare un male quel che necessita di natura impone.
Dicono taluni che la vecchiaia si insinui prima di quanto pensassero.
Chi li ha indotti a credere il falso?
Forse che la vecchiaia subentra furtiva alla giovinezza più rapidamente di quanto la giovinezza subentri furtiva all'infanzia?
Piuttosto, quando gli anni passati sono volati via, non c’è consolazione che possa mitigare la vecchiaia degli stolti.
Perciò se vi stupite della mia saggezza solitamente, saggio lo sono in questo: seguo la natura, ottima guida, come se fosse un dio e le obbedisco…
Non è infatti verosimile che essa abbia descritto bene tutte le altre parti della vita per poi buttare giù l’ultimo atto, come un poeta senz'arte.
Il vecchio non fa certamente le stesse cose dei giovani, ma molte di più e meglio.
Le grandi azioni infatti non sono frutto della forza, della velocità o dell’agilità fisica: ma del senno, dell’autorità, della capacità di giudizio.
Se tali qualità non fossero dei vecchi i nostri padri non avrebbero chiamato ‘senato’ il consiglio supremo.
A Sparta, appunto, chi esercita la magistratura più alta ha l’età e quindi il nome di ‘vecchio.
Se poi avrete la compiacenza di leggere o ascoltare la storia delle nazioni straniere, scoprirete che sono stati esattamente i ‘giovani’ a mandare in rovina gli stati più forti, i ‘vecchi’, invece, a sostenerli e a rimetterli in piedi.
Ma non sono le rughe o i capelli bianchi che riescono a conquistare di colpo l’autorità, ma è la vita passata vissuta con onore, è essa a raccogliere alla fine i frutti dell’autorità.
E se il giovane spera di vivere a lungo, mentre il vecchio non può certo sperare la stessa cosa dico che il vecchio non ha nemmeno di che sperare. Ecco perché si trova in una condizione migliore del giovane!
Quel che il giovane spera, lui già lo ha ottenuto: il giovane vuole vivere a lungo, lui ha vissuto a lungo.
Se ne vanno le ore, i giorni, i mesi, gli anni: non torna più indietro il tempo passato ed è impossibile conoscere il futuro.
Quando la fine allora arriva, quando il passato è volato via rimane solo quanto hai conseguito con la virtù e le azioni giuste.
Non mi pento di aver vissuto perché ho vissuto in modo tale da credere di non essere nato invano”.