Ciascuno di noi, deve far parte di qualcosa che lo definisca e lo consegni, per modo di dire, a sé stesso, cioè parte di un ‘sistema’.
Questa verità, lapalissiana di direbbe, ha raggiunto la sua estrema espressione nella vita di un giovane, classe 1983, di cui ho attraversato le vicende a tutti note, leggendone l’autobiografia appena edita.
Lui, con la sua faccia triste stampata in copertina, mi chiamava, come mamma di figli della sua stessa età e non potevo non rispondere.
E ora rispondo.
Così.
Partendo da “Indietro tutta” trasmissione dell’88 che, quando la vita di Snowden, dall'altra parte del mondo, era già impostata sui videogames, celiando ci trastullava con un refrain - tormentone, ho sintetizzato a modo mio le cose che il genio informatico narra.
“Sì! La vita è tutta un quiz”… leggendo la biografia di Snowden mai giudizio - almeno su quegli anni appena alle nostre spalle - fu più azzeccato.
Peccato che la vita - quiz non sia vita.
E questo Snowden, lassù confinato nel suo esilio involontario a Mosca, temo non lo sappia.
Non lo sa semplicemente perché non glielo hanno mai detto.
A cominciare dai suoi insegnanti i quali si offrivano deliberatamente di essere presi in giro dai loro studenti - magari da quelli un po’ geniali, come lui - producendo Piani Formativi tutti basati su quiz e crocette nelle verifiche in classe.
Fatti due conti, il futuro genio dell’algoritmo, trovava esattamente, con un calcolo statistico, come non fare un tubo a scuola e a casa, ma riuscire a passare lo stesso l’anno.
E cioè in base alle crocette che avrebbe calcolato dove e come mettere nelle interrogazioni a quiz.
Visto che la sua cultura e educazione veniva plasmata a suon di ‘vero/falso’ e relativa, appunto, crocetta.
La scuola - americana e basta? - che abdica al suo ruolo educativo, la famiglia - americana e basta? - che abdica al suo ruolo formativo (nel caso specifico grazie ad un padre, stanco dal lavoro, che la sera rientrando meglio non trova che piazzarsi davanti al magico schermo di un PC e dedicarsi ad abbattere elicotteri.
Un figlio - americano e basta? - in preda all'ammirazione per la figura paterna sulla base della quantità di velivoli che gli vede abbattere, non seduto accanto a lui, ma seminascosto dietro uno spiraglio di porta socchiusa.
‘Mio eroe’ lo definirà.
Nell'arco dei suoi brevi anni, il ragazzo che ha gettato nello scompiglio la NSA e la IC americana, pluriricercato su tutto il globo e costretto a vivere nell'anonimato, apolide perché senza più passaporto, ha già consumato una tragedia di dimensioni epocali.
Mi ha molto incuriosito leggere quello che un tipo che potrebbe essere benissimo mio figlio, narra del mondo che così, per la prima volta, io che appartengo a tutt'altra generazione, sono costretta a vedere senza quei riflessi ancora pieni di idealità che alla mia nascita di inculcavano ai bambini.
Felicissima, oltretutto di averli avuti.
Felicissima di come sono stata educata.
E perfino di come ho, anche senza FBI alle calcagna, con mille altri problemi vissuto.
Snowden, nato nel 1983, è probabilmente la miglior rappresentazione del giovane di oggi: una famiglia della middle class dove l’unica volta in cui ha avuto contatto con qualche libro è stata quando - anziché ai giardinetti - la mamma aveva pensato di portare lui e la sorella in biblioteca.
Sta a dire, famiglia di una certa educazione, ma: libri a casa, zero.
Una famiglia, che - come dice lui (ma sembra parli di persone non molto remote neppure per noi, e qui da noi…) - illustra “tre milioni di burocrati (deep state), disinteressati, non tanto degli ideali politici, quanto dei politici stessi.
Funzionari non eletti, né nominati, che prestano servizio nel governo, lavorando in qualche agenzia indipendente o in uno dei dipartimenti dell’esecutivo.
Il loro compito è quello di assistere dei dilettanti eletti dal popolo nell'adempimento dei loro doveri politici.
Impiegati statali, la cui posizione rimane immutata, mentre l’amministrazione cambia di continuo. Essi eseguono i loro doveri sia sotto i repubblicani, sia sotto i democratici, perché lavorano per il governo, garantendone di fatto loro la stabilità e la continuità” (Errore di sistema, pagg. 111/112).
Poi, c’è un padre che - nello stesso torno di anni che anche mia figlia maggiore, soltanto un anno più grande di Snowden, comincia a chiedere un PC perché le prime lezioni a scuola l’avevano incuriosita - porta a casa una serie di dispositivi tra cui soprattutto quelli per i video giochi e li lascia a completa discrezione del bambino.
Disturbato in questa sua attività giusto quando la sorella maggiore non poteva accedere al telefono (i primi PC funzionavano sulla linea telefonica).
Non appena nasce il web la sua ambizione per l’esplorazione del mondo virtuale non ha più limiti: “Là fuori, dove gli altri bambini giocavano al pallone, non c’era nulla che potesse competere con ciò che potevo trovare dentro quel grigio ed ingombrante clone del PC (un Compaq Presario 425, prezzo di listino 1399 dollari, mio padre lo acquistò usufruendo dello sconto riservato ai militari e - con grande disappunto di mia madre - lo piazzò proprio al centro della tavola da pranzo): divenne una presenza costante, un vero fratello, il mio primo amore. Quando arrivò nella mia vita avevo appena iniziato a provare per la prima volta un desiderio di indipendenza e a scoprire i tanti mondi possibili racchiusi in questo mondo” (ib. pagg. 45/46).
Così tanti che decide semplicemente che non potrà perdere più il suo tempo con la scuola.
E così i calcoli statistici e gli espedienti per passare con la sufficienza anche senza studiare - questa inutile perdita di tempo - bensì sfangandosela con le crocette del vero e falso dei quiz.
Genialata consentita dalla scuola contemporanea.
Ma anche la sua famiglia, di cui ci parla per narrare le gite in biblioteca pensando alla madre, o per confidarci il suo ‘voyeurismo’ serale mentre spiava il padre abbattere elicotteri virtuali, si mostra altrettanto geniale e a rischio fallimento nel suo delicatissimo ruolo di educatrice.
Fallirà poi realmente con un divorzio.
Dopodiché la biografia di Snowden è quella di un arrabbiato che ritiene - son parole sue - diventando un hacker, di poter dimostrare il suo ‘non sono d’accordo’ col mondo e le sue ‘imposizioni’ (ma se aveva sempre e solo fatto quello che voleva, cioè stare dietro ad un computer anche quando i suoi lo chiamavano per pranzo e cena?). Come?
Entrando - e danneggiando - i sistemi altrui.
Ed ecco qui la parola chiave che - nella mia giurassica forma mentis - mi sembra di aver individuato nel volume da lui pubblicato: il ‘sistema’.
Certo, non ci vuole molto ingegno se pensiamo che il titolo del libro è proprio questo: “Errore di sistema”…
Ma la realtà, a mio avviso, è che più che un titolo, per lui, il ‘sistema’ sia il mondo.
Non certo nel senso pseudo - nobile con cui negli anni ‘60/’70 si criticava il ‘sistema’.
No: il ‘sistema’ semplicemente per i giovani nati negli anni ’80 del secolo scorso è il modo unico ed esclusivo con cui gli esseri umani interagiscono: tutti siamo in un unico grande sistema dentro cui ciascuno struttura il suo piccolo personale dominio.
Il grande sistema può obbligare il piccolo sistema a adeguarsi a sé stesso, e allora… non resta che hackerare: trovare la falla del sistema altrui ed entrarci per screditarlo.
Una guerra tra sistemi che altro non è che una guerra tra titani, più o meno grandi, più o meno forti: non esiste l’uomo e la possibilità di fare il male, bensì soltanto un sistema e le sue falle.
La nostra società è un luogo dove non si richiede apprendimento vero, cioè uso della ragione.
La nostra società richiede un addestramento, alcune skill, per ottenere le quali, come il vecchio Pavlov aveva illustrato ampiamente è sufficiente un ‘rinforzo’ conseguente ad uno schiacciare la levetta giusta, o, riempire il quadratino del ‘sì’ piuttosto che quello del ‘no’.
Tutto il resto, arte, musica, pensiero, analisi e critica è superfluo.
Se becchiamo il ‘vero’, cioè mettiamo la crocetta sul sì, quindi il ‘vero’ in riferimento al sistema che ce lo sta chiedendo, procediamo ed avanziamo - in carriera, amore, amicizie, potere - Non rileva se quel ‘sì’ rifletta o meno un ‘bene’.
È ‘bene’ comunque, se, e in quanto, ci fa avanzare: il sistema rafforza e dà conferma all'azione compiuta, anche se più o meno a caso, per furbizia per calcolo statistico, come Snowden quando calcolava le probabilità di passare l’anno senza studiare mai, solo mettendo crocette al posto giusto.
È impressionante soprattutto l’eliminazione pressoché completa del pensiero di bene e male.
Non esiste un Bene od un Male in un sistema che si basa sul vero e falso.
Vero e falso intesi solo come: vero, procedo/falso, mi arresto.
Esattamente come in un video game.
Non importa se retrocedo od avanzo in un ambito ‘corretto’: l’importante è che - una volta entrati in un sistema - si possa raggiungere una posizione in cui si venga riconosciuti e convalidati come parte di esso dagli altri e, così, guadagnare potere al suo interno.
Mi affiorano alla mente, e con dolore, mille vicende recenti in cui, a prescindere da qualsiasi considerazione se l’individuo coinvolto affermi il giusto o l’ingiusto (connessi evidentemente con l’‘arcaica’ nozione di bene e male), si emargina colui che non è funzionale al ‘sistema’.
Anche da quello - ai tempi il più ‘umano’, per antonomasia - della famiglia.
La famiglia normale, non quella mafiosa, chiaramente.
Che, però, in questa logica di potere staccato da qualunque implicazione di bene o male che non sia il vero e falso generato dal sistema, poco si distingue purtroppo anche da tante famiglie.
Tre membri anziani della gilda dei Tessitori creano un telaio segreto che controlla il mondo e cuce influenze impercettibili nel tessuto della realtà. Quando qualcuno scopre il potere del telaio, viene mandato in esilio e tutto precipita nel caos.
Finché non si capisce che - dopotutto - è un macchinario segreto che decide il destino di ciascuno e non è affatto una buona idea (ib. p.46)
immagine: Svetlana Nikolič