"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Il 4 Novembre un tempo - causa anniversario della vittoria - si festeggiava standosene a casa da scuola.
Oggi, a casa, ci dobbiamo stare per una sconfitta: quella davanti ad un virus.
Io - quindi - resto a casa e - pensando che l’epidemia/pandemia non sia per una catastrofe, bensì per l’indicazione di una strada che probabilmente ci ostiniamo a non prendere - colgo l’occasione della memoria di questo grande santo dando spazio, come incipit, a quanto nella prefazione alla pubblicazione del Memoriale ai milanesi a cura del Centro Culturale san Carlo della Milano di allora, scrisse in data 4 Novembre 1983, Giovanni Testori.
Così Testori: "Come non avvertire che noi stessi per primi non potevamo (e non dovevamo) sfuggire alla basilare verità di cui si compone il testo carliano fin dall’intitolazione?
In fondo l’intero discorso carliano, la sua intera implorazione, il suo intero allarme, il suo intero appello a tornare al sangue salvifico e liberante di Cristo, s’alza e deprime di continuo sulla costatazione, che ci sembra, in luce inesorabile e trafiggente, formarne la bellezza e, insieme, strettissimamente ed inscindibilmente la lezione.
Tale lezione è che, se spegne, strozza, uccide ed assassina in sé la memoria, l’uomo si fa pronto per vendersi alla ‘màscara’ di sé; oggi a quella terribile finzione di salvezza che è la Macchina-Potere; o, se vogliamo, per restare ai nostri magri conti, al Totem-Re del ‘Post-Hamlet’.
La peste non precede, ne consegue.
E la peste d’oggi, che si diffonde con la seduzione e la paranoia irresistibile di tutte le vere infezioni, non è tanto identificabile con le singole pesti, che pure con tale nome usano chiamarsi (poniamo, l’atroce suicida flagello della droga), quanto con lo stato d’indifferenza: verso il nostro destino e la nostra realtà di figli; dunque, di fratelli.
Indifferenza cui tale Potere va inducendo l’uomo per poterlo strappare al Padre, al Figlio e ridurlo schiavo del suo disegno, neppure più animale, bensì freddamente cosificante ed oggettualizzante.
Forse la carità, il primo e più profondo atto di carità, oggi come ai tempi della peste di san Carlo, consiste nell’unica arma di combattimento di cui l’uomo disponga e che non gli è più lecito rinviare: la speranza liberante di Cristo.
E, forse, quella di essere ‘Memoria memor’.
È questa la prima invocazione da sussurrare o da gridare".

In tempi di pandemia capita di ripensare a quante altre volte, lungo il corso della storia, pandemie e flagelli similari si siano sviluppati.
A me, rileggendo alcuni volumi in casa da anni e - lo ammetto - mai prima debitamente consultati, è capitato di imbattermi nella peste ai tempi del Cardinal Federico e, prima ancora, in quella dello zio, Carlo Borromeo.
Prima metà del Seicento l’uno, seconda metà del Cinquecento l’altro.
Sì, vedere come ed in che modo pieno di attenzione e dedizione agli appestati, i due Borromeo si siano dedicati, mi ha commosso oltre ogni dire.
Mi ha commosso comprendere, dalle descrizioni che essi ne fanno, le condizioni estreme di orrore e disperazione in cui Milano si era venuta a trovare in quei frangenti.
Pensando che questa sarà la settimana in cui cadrà la memoria liturgica di San Carlo, è di lui che voglio parlare.
Zanardi, in Archivium historicum Societas Iesu, XLVII, 1978 ci accompagna in Piazza del Duomo durante una celebrazione domenicale a sbirciare e… contare.
Contare la decina effettiva di carrozze ivi parcheggiate mentre, spostandoci un po’ più in là, a Brera, nella chiesa di santa Maria della Rosa o anche in piazza san Fedele, le carrozze d’alto bordo assommano decisamente a numero non inferiore alla sessantina! Talora, sono la bellezza di un centinaio…
Cosa sarà mai ad attirare tanto i nobili e i signorotti dentro al san Fedele, ed indurli invece a snobbare il loro cardinale alla stessa bisogna in contemporanea impegnato?
In san Fedele, negli anni Settanta del  Cinquecento predicava il gesuita  Giulio Mazzarino che - come  icasticamente narra un suo confratello nella Historia societatis,164,ff.136.138v.: "La matina adopra il petine et specchio con asciugatorio in spalla (…) Non so quale signora gli aveva fatto sei camiscie et sciugatori; e il compagno udì dire : questo predicatore si polisce tanto che farà innamorare le donne. Senza problema si fa venire la carrozza in collegio (oggi accademia di Brera) per andar fuori a spasso".
Nulla di strano se, allo stesso modo, il gesuita Fernando Mendoza, nel 1599 al seguito del viceré di Napoli e di sua moglie della quale era il confessore, “riceveva doni squisiti, vestiva camicie d'Olanda, usciva in carrozza e s'intrometteva in secolari negozi”.
Come rammenta F. Rurale, autore di uno studio sui gesuiti in Milano nel Cinquecento: “L’élite della Compagnia di Gesù, confessori, precettori, predicatori, era regolarmente inserita negli ambienti di corte, abituata - per così dire - ai modi della società nobiliare, attenta ai suoi costumi ed ai suoi valori (il corsivo è mio), portavoce di una teologia inevitabilmente compromessa con leggi, eleganza e pratica cortigiane”.
E poi c’è Carlo.
Il Borromeo: "Non indossò mai vestiti di seta, però erano sempre convenienti alla sua dignità. Portava gli abiti finché erano logori e voleva che le sottovesti fossero più volte rammendate. In camera portava una veste rozza di colore scuro. Ero presente una volta nella sua stanza, quando, alzata la veste ad un vescovo, gli osservò benevolmente le calze ed il modo con cui le teneva allacciate, rimproverandolo perché imitava in tutto l’uso profano. Non parlò mai con donne senza che fossero presenti uno o più dei suoi domestici più assennati" (C. Bascapè, Vita e opere di Carlo arcivescovo di Milano cardinale di s. Prassede).
Senza nessun tipo di riguardo circa quest’ultima preoccupazione - se fossimo stati là, nella Milano borromaica, a ciondolare tra le carrozze parcheggiate in San Fedele - in contemporanea avremmo potuto imbatterci nel gesuita Giovanni Gurrea il quale, giunto in città nel 1567, era il confessore personale della duchessa e, pertanto, assiduo frequentatore del palazzo del potere che allora era quello di don Gabriele de la Cueva, duca di Albuquerque.
Frequentatore nel senso più esteso del termine: infatti era solito aggirarvisi anche in ore generalmente ritenute poco convenienti ad un religioso.
Quest’ultimo, per sua sfortuna, si trovò a fronteggiare un suo confratello che - invece - era molto caro a San Carlo, il padre Giacomo Paez.
Il Paez criticava duramente il costume corrotto degli uomini di governo… quindi?
Quindi il preposito generale, Francisco Borgia, gli ordinò immantinente di lasciare la città.
Motivo?
Nella lettera che il pronipote del famigerato papa Borgia inviò a Carlo Borromeo, leggiamo: "Vostra signoria illustrissima haveria fatto il medesimo - scrisse nell’aprile 1569, aggiungendo di non poter esaudire le proteste del prelato contrario assolutamente al trasferimento del Paez - perché non era possibile “sodisfar altramente a la signora duchessa".
"Ciascun sovrano ebbe (e visto che - pur non avendo bisogno oggi di esser teste coronate - i sovrani non sono venuti a mancare neppure oggi, potremmo aggiungere: li ha) il suo gruppo di gesuiti fedeli", come ricorda H. Martin in Henry III and the jesuit politicians.
La questione dottrinale "diviene così indistricabilmente connessa alla convenienza politico-diplomatica". (V. Frajese in Studi storici XXV, 1984).

Intanto, le autorità spagnole "si dedicavano a contrastare in loco, caso per caso, le ‘iniziative’ dell'autorità ecclesiastica con contromosse giudicate adeguate, evitando con cura di scendere sul terreno scivoloso delle discussioni vere e proprie, garantendosi così di eludere il nodo cruciale di ogni questione: l'onere di provare l’oggettivo fondamento dei diritti accampati.
Diritti che esse protestavano e che la Chiesa milanese rifiutava di riconoscere loro", come ci dice A. Borromeo in L’arcivescovo Carlo Borromeo, la corona spagnola e le controversie giurisdizionali a Milano.
Carlo da parte sua reclama che chi indebolisce l'autorità della Chiesa, intralciando l'opera sua e dei suoi ministri, finisce irrimediabilmente con l'indebolire anche l'autorità del principe.
Tibio era considerato Carlo in una relazione dell’ambasciatore spagnolo presso la Santa Sede del 1563: tibio, cioè privo di personalità.
E tibio lo definiva il governatore di Milano, duca di Albuquerque, più tardi in una lettera a Filippo II di Spagna.
Ma appena due mesi dopo il suo insediamento in diocesi, il tibio rivela di che pasta sia realmente fatto.
Ognuno di noi, quando a scuola ci facevano leggere i Promessi Sposi avrà constatato quanto dovesse contare per i dominatori iberici il cerimoniale e le convenzioni formali.
Mi riferisco al famoso lasciare il passo nell’incontro su un passaggio stretto che portò fra’ Cristoforo poi, dopo l’omicidio, a divenire, appunto, fra’ Cristoforo.
San Carlo, uguale.
So trovò innanzi il governatore spagnolo di Milano che rivendicava il diritto di precedenza anche sull’arcivescovo.
In ossequio alla sacralità del presbiterio, ribadita nell’appena conclusosi Concilio di Trento, il futuro Santo escludeva chiunque non fosse preposto al culto dal permanerci durante le funzioni.
Fu così che il governatore spagnolo si ritrovò a sedere al di là delle balaustre della zona consacrata all’altare.
Una piccola vicenda in sé, ma che ci fa ampiamente notare come decenni di abbandono della diocesi da parte dei suoi pastori avesse potuto permettere alle ambizioni delle autorità civili di spingersi a rivendicare una posizione di primato pure sulla più alta autorità ecclesiastica e persino durante lo svolgimento di riti religiosi.
Il tibio tirò innanzi: un editto arcivescovile del 7 marzo 1579, proibiva, sotto pena di scomunica, tornei, giostre e spettacoli vari nella prima domenica di quaresima, giorno che in virtù di un’antica usanza milanese era da sempre considerato come festivo con il nome di ‘domenica di Carnevale’.
Non mi soffermo su tutto quanto - ben noto - ha reso Carlo Borromeo San Carlo.
E intendo tutta la problematica legata all’importantissima questione educativa con la preoccupazione immensa di cui si fece carico nelle Scuole della Dottrina cristiana.
Restano inoltre - se pur da me non molto amati per l’effetto estetico conseguente e la sconnessione del  programma iconologico originario - i grandi tabernacoli, quello di Pirro Lagorio in Duomo o quello in San Simpliciano, segno drammatico grazie alle loro stesse ‘s-proporzioni ‘, di un ‘estrema preoccupazione per la tutela ed esaltazione della santa Eucarestia, fisica e reale presenza del Signore Gesù, in contrasto con le eresie luterane dilaganti.
Restano ancora le ‘Crocette’ agli snodi viari della sua Milano, memorie del suo recarsi in processione, a piedi nudi, per sconfiggere con la preghiera e la penitenza, il flagello della peste.
Resta, per me, una dichiarazione - se pure le sue siano state tante ed una più bella e vera delle altre:
"Haverò sempre da preferir conservatione della mia Chiesa et sue ragioni a qualsivoglia rispetto humano" (ASV, S.S. Spagna3, ff. 421r-423, Borromeo al nunzio a Madrid Castagna, 23 febbraio 1568).

(immagine: Tanzio da Varallo, san Carlo comunica gli appestati; particolare)