Non stava scrivendo un trattato di psicologia della forma Ratzinger, quando scriveva queste righe. Stava scrivendo la recensione ad un volume di Romano Guardini, Il Signore, bellissima raccolta di omelie del grande teologo.
E non stava parlando di quella condizione che tutti noi ben conosciamo quando la persona amata ci lascia, per un po' o - all'atto conclusivo dello spettacolo - per sempre.
Ratzinger parlava di come prendere coscienza della condizione nostra di fronte al mistero che - tra l’altro - ci starebbe più a cuore conoscere: la persona di Cristo.
Cristo sta lì, sul monte e sta ascendendo al cielo. Se ne va.
Eppure, come narrano gli Atti, "Gli Apostoli se ne tornarono lieti".
Il Signore proprio perché se ne va, cioè va al compimento ultimo del suo Destino, Dio, rimarrà sempre e per sempre con loro, con noi.
Non mi pare il caso di addentrarsi in disquisizioni teologiche.
Sta di fatto che parlare di Cristo e del suo scomparire con inesorabile regolarità ogniqualvolta ci sembra di averne afferrato qualcosa di più, ha una infinita somiglianza con un parlare di noi: di noi esseri umani e delle nostre fughe in avanti per afferrare un perché che la realtà dovrebbe darci, ed invece… quasi mai ci darà.
Perfettamente in linea, questa descrizione dello stupore per il continuo 'scomparire' di Cristo, con l’esperienza quotidiana di ognuno su questa terra, e non certo mentre pensa o discute di Cristo, ma proprio mentre si ritrova a sbrigarsela con i suoi amori, le sue gioie, le sue paure.
Come in un fermo immagine di un vecchio film che, per chi scrive, non ha mai smesso di scorrere sullo schermo del cinema della sua vita, la bambina che gioca sulla riva del mare d’inverno è lieta e confidente. Nel breve volgere di un secondo il mare si ingrossa e divora tutto quello che con la sabbia della sua voglia di giocare lei aveva costruito.
La bimba è mia figlia. Lei - per me - ha sempre quel fazzolettino annodato sul capo e per sempre indosserà quella mantellina blu che chissà mai dove è finita…
Però lo sguardo atterrito e pieno di interrogativo per quel movimento brusco delle onde che poco prima le tenevano, invece, serena compagnia non finirà mai di starmi innanzi.
Gli anni, tanti, passati da quel momento in poi, a me hanno sempre fatto pensare a come le cose che amiamo in realtà continuamente scompaiono eppure non ci lasciano.
Proprio come il Cristo di Guardini/Ratzinger.
Soprattutto se sembrano scomparire - il motivo è la loro infinita indicibilità.
Il diniego è ciò che - paradossalmente - ogni cosa, illuminata dal nostro amore e quindi per noi tanto importante, oppone.
Un diniego che è strutturale alla natura delle cose umane e che non indica necessariamente negatività o male. Molto più semplicemente, ci insegna a adorare.
Così Ratzinger si riferisce all'esperienza religiosa.
Ma, in realtà, sta illustrando la trama di ogni relazione umana, di ogni amore.
Adorare il Signore appare come liberazione dal timore che il mare del non senso, che invade la vita, ci porti via i castelli così ben costruiti, e che pure sapevamo essere fatti di sabbia.
Il punto, perciò, non è tanto la qualità della materia con cui costruiamo, ma il semplice fatto che non ci rendiamo conto della sostanza di essa.
"Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni" diceva Shakespeare forse proprio indicandoci poeticamente il mare che sale e dilegua, portandola via con sé, ogni cosa.
La cosa sottratta diventa così qualcosa da amare con quell'amore che si può definire 'adorazione'. Ogni cosa, ogni persona, ha per noi la caratteristica di essere il massimo della cosa o della persona. Si chiama 'emozione' come ci narra Matte Blanco. E l'emozione contiene la prospettiva illimitata che la cosa o la persona non può, invece, oggettivamente dare.
"Noi idealizziamo per la necessità inerente all’essere umano di vedere una bontà o una bellezza limitata come la suprema bontà e la suprema bellezza. Ed anche la possibilità illimitata di male fa parte del nostro modo di idealizzare, cioè descrivere a noi stessi le cose o le persone.
Quando abbiamo paura, e in quanto abbiamo paura, concepiamo i pericoli corrispondenti al massimo grado.
Se così non soccombiamo è perché altre forze agiscono in direzione opposta"
Le 'altre forze' sono senz'altro anche l'amore e le parole degli amici o delle persone care che ci aiutano a vedere il disagio in cui ci dibattiamo con occhi differenti, estranei al nostro timore.
Vivere vuol dire perciò districarsi in una visione che ci appare completa rendendosi conto che completa non è, accettandone la contraddizione di fondo: ci si dà, ma, in contemporanea, scompare.
La estremizzazione dell'emozione indica che non vediamo un fatto, un individuo: vediamo come precisa Matte Blanco un'intera classe, che assolve una funzione proposizionale, cioè descrive per noi non quell'individuo e non quella cosa specifica, ma tutta la potenzialità che, per essere quella cosa o persona, la cosa o persona esprime.
Così ogni cosa buona, per il fatto di accadere a noi, contiene fino al massimo grado concepibile l'attributo della bontà.
Talora fino ad assumere quella Bontà che può essere solo di Dio.
È il nostro umano modo di relazionarci. Potrebbe poi essere colpevolizzata una persona perché in realtà non era Dio?
È sufficiente - per il nostro mondo emozionale, così rozzo - che qualcuno possieda un minimo attributo di 'bontà' perché noi lo si collochi nella classe delle persone buone.
È possibile che qualcuno possieda un attributo paterno perché lo si collochi nella classe 'padre'.
Per taluni, basta l'attributo donna per trovarsi collocati nella classe - mi si passi l’eufemismo necessario - signorine di malaffare.
Ma, qui, i sintomi schizoidi sono evidenti.
Finisco semplicemente spezzando una lancia in favore di chi sa - adorando - staccarsi dalle 'funzioni proposizionali' e dalle estremizzazioni, fondate sull’amore magari, e si industria a scoprire dietro gioia e paura, non un mare cattivo che ruba quello che prima ci dava, ma il diniego che parla d’eterno.