Primo perché quando qualcuno risponde ai nostri appelli, sempre fa bene al cuore.
Secondo perché mi ha inviato un ‘estate che più estate non si potrebbe immaginare: con tutti questi colori stupendi e variegati che sono poi i fiori del la giardino del vicino in Svezia…
Svezia che io chissà perché ho sempre immaginato tutt’al più verde, per i boschi e bianca, per la neve.
Invece ha un’estate coloratissima.
E coloratissima mi auguro sia stata l’estate di Anna.
Che, forse, un dì conoscerò personalmente.
Quello per cui dedico ad Anna il mio pensiero settimanale, non è semplicemente per ringraziarla, bensì perché in questi giorni ho molto pensato al dolore.
Lei, nel suo piccolo, mi ha accennato ad un dolore che ha avuto una genesi in fattori molto simili al ciclone che ha attraversato la mia vita e così, mi sono soffermata a pensare al dolore.
Ma, in maniera particolare, mi ci ha fatto pensare l’incontro con un’amica il cui marito sta lottando in tutti i modi di venir fuori da una malattia non bella. Sono certa che ci riuscirà.
Ma mentre lei mi parlava, mi sono resa conto che non potevo fare nulla.
Né per lei né per suo marito.
Eppure, quando un amico soffre, quando una creatura di Dio soffre, possiamo fare una cosa grandissima: stargli accanto.
Con intelligenza, è ovvio. Cioè comprendendo quello che è nelle nostre possibilità e quello che non lo è.
Tacendo quando occorre e parlando quando si può.
Consigliando se se ne vede il motivo o semplicemente facendo un sorriso se non si può fare altro.
Anche una lacrima ci può stare, se non avvilisce di più chi già sta soffrendo.
Ma la cosa fondamentale è capire che non dobbiamo temere che il dolore dell’altro possa pregiudicare il nostro equilibrio. O meglio, può pregiudicarlo, ma allora è la prova che il nostro non è un equilibrio.
Ammettere che c’è un confine al nostro desiderio di onnipotenza passa anche proprio attraverso l’esperienza del dolore. Nostro e di chi amiamo.
La cosa più naturale, ovvia per chi non è stato mai educato a fare altrimenti, è fuggire. Deviare o schermare il dolore. Quel potere indiscreto che ha la natura delle cose con le sue leggi e norme a noi estranee di calarsi dentro i variegati falsi Sé che ci siamo costruiti per incrinarceli inesorabilmente.
Riuscire ad accettare l’altro che soffre è innanzitutto accettare che esiste qualcosa o qualcuno che è altro. Altro da noi dal nostro rigoroso ricercare il piacere. Mentre mio figlio dava la pappa alla sua bambina, giorni fa, si poneva la domanda di quando un infante comincia percepire di esistere, di essere un'entità tra le altre.
E la risposta fu che per un bambino non esiste altro che se stesso. Esiste tutto il resto - madre/padre/giochi/pappa/sole/notte - solo in riferimento a se stesso e solo per poterne ricavare piacere. È solo a misura che tutto questo corollario di sé si mostra non manipolabile e resistente in qualche maniera al proprio desiderio di godimento sempre e comunque, che il piccolo comincia ad intuire che lui è solo uno tra tanti.
E che il reale - se riceverà un'educazione e non un puro allevamento- va relazionato ‘simbolicamente’, cioè attraverso codici e convenzioni che ne rispettino la non disponibilità ultima ai nostri interessi puramente istintuali.
E questo si chiama ‘dolore’.
Il dolore è la forma pietosa di insegnamento che noi siamo limitati. Negarlo e voltarsi dall’altra parte ci condanna a morire.
Chi apre gli occhi perché accetta di non vedere solo sé stesso, entrando nella morte ad occhi aperti - come diceva la Yourcenar - in realtà non morirà mai.
Anche la nostra estate, se pur appassirà come i fiori della foto di Anna, non morirà però mai.
(scatto di Anna C.)