Fu trovato una sorta di accordo per cui alla componente cattolica spettava il controllo della sfera politica e delle più alte cariche dell’ordinamento democratico, mentre ai laici veniva concesso in dote il dominio dei grandi centri finanziari, le Banche d’affari.
Il tessuto economico e finanziario cattolico si svilupperà grazie alle ‘banche di raccolta’ e alle popolari, senza minimamente intaccare il potere dei grandi istituti bancari che gestivano i rapporti con la finanza straniera.
Usando una similitudine calcistica, è come se i cattolici nel dopoguerra, avessero ottenuto il controllo della seria A della politica e della serie B della finanza, viceversa ai laici andava lasciata la serie A della finanza e la serie B della politica.
I legami e gli interessi che legano le banche italiane a quelle straniere vengono dunque trattati dalla sfera laica di questo schema, e i riferimenti stranieri in Italia tradizionalmente è meglio che portino il grembiulino”.
A questo punto, possiamo forse inquadrare meglio, calandoci in tempi più recenti, la figura di Mario Draghi. La nostra corta memoria non ci fa ricordare come - in qualche modo - già si sia parlato di lui ai vertici politici del Pese per di più come colui che Cossiga non esitò a definire un “vile affarista”.
Si era in piena trasmissione televisiva, Unomattina, condotta da Luca Giurato. Era il 2008 e il picconatore esclamava: "Draghi? Un vile affarista. Non si può nominare presidente del Consiglio (e oggi si può, Presidente d’Italia? ndr) chi è stato socio di Goldman Sachs, grande banca d’affari americana. È stato lui il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, dell'industria pubblica italiana. Sì, la svendita dell’industria pubblica italiana, quando era direttore generale del Tesoro. Si immagini cosa farebbe da presidente del Consiglio! Svenderebbe quel che rimane… E certamente ai suoi comparuzzi di Goldman Sachs. Male, molto male io feci ad appoggiarne la candidatura, quasi ad imporla a Silvio Berlusconi. Male, molto male!”
Nei fatti, allora furono tre le società straniere coinvolte quali ‘consulenti’ del governo Amato (altro, pare, attuale candidato alla presidenza della Repubblica! ndr): Goldman Sachs, Merryll Lynch e Salomon Brothers.
In sintesi: le tre grandi banche d’affari di Wall Street furono ingaggiate dal governo tecnico italiano per svolgere il ruolo decisivo nella valutazione e nella privatizzazione delle imprese pubbliche italiane. I colossi finanziari americani si incontrarono e a porte chiuse con i dirigenti italiani degli asset pubblici da privatizzare con l'uomo che, dall'interno del sistema, dirigeva il processo di dismissione: il direttore generale del tesoro, Mario Draghi. Queste finanziarie ebbero accesso a dati di grande importanza e delicatezza che riguardavano alcune delle più valide imprese europee, e si posizionarono in assoluto vantaggio come 'consiglieri per la privatizzazione'.
Su tali fatti e loro conseguenze così si pronuncia Sergio Noto: "Le privatizzazioni degli anni ’90, nella migliore delle ipotesi, si sono compiute senza riuscire a calcolare appieno le conseguenze di certe decisioni di particolare importanza. Dare, per esempio, società strategiche come Telecom in mano a gente che neanche aveva i soldi per piangere, e per di più chiamandoli capitani coraggiosi, ha prodotto i risultati che tutti vedono: una società di importanza fondamentale per lo Stato come Telecom, ora è in mano ai francesi".
Altre importanti aziende (come Buitoni, Locatelli, Ferrarelle, Perugina, Galbani) sono state cedute a imprenditori e gruppi che agivano in comune accordo con l'élite finanziaria anglo-americana.
Nello stesso periodo in cui l'Italia dismetteva i suoi asset strategici, le nazioni sue dirette competitor, Francia e Germania, procedevano nella direzione opposta verso un rafforzamento dei loro comparti strategici, banche in primis, mentre con le privatizzazioni una storica banca come la BNL, avviata alla privatizzazione nel 1992 proprio da Draghi, finiva in bocca alla finanza massonica francese del gruppo Paribas, dopo lunga vicenda conclusasi nel 2006 che ha visto protagonista lo stesso Draghi, questa volta in qualità di governatore di Banca d’Italia.
Ciò che - a detta di Coltorti - non torna di queste operazioni è che in tutti i paesi europei le privatizzazioni furono affidate preferibilmente a banche nazionali, mentre da noi il ministero del tesoro stendeva addirittura il tappeto rosso alle banche d’affari straniere perché calassero in Italia.
Qui occorre dare qualche ragguaglio o semplicemente ricordare cosa accadde sul famoso Britannia nel 1992.
Giulio Tremonti, presente sul panfilo, raccontò al Corriere della sera che: "La crociera sul Britannia simbolizzò il prezzo che il Paese dovette pagare tanto per modernizzarsi quanto per restare nel club. Il club che oggi si chiama International Financial Services e raggruppa circa 150 aziende del settore finanziario".
Fu nel ’92 che questa organizzazione capì che anche l'Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire.
E non c’è privatizzazione italiana degli anni seguenti in cui la finanza anglo-americana non abbia svolto un ruolo importante (Sergio Romano, La crociera del Britannia fra affari e sospetti, Corriera della Sera, 16 giugno 2009).
Occorre ricordare che lo Stato, a quel tempo, controllava aerei, treni e autostrade per intero, idem per acqua, elettricità e gas, l’80% del sistema bancario, l'intera telefonia, la Rai, porzioni consistenti della siderurgia e della chimica. I settori di partecipazione erano praterie sconfinate (assicurazioni, meccanica, elettromeccanica, alimentare, impiantistica, fibre, vetro, pubblicità, supermercati, alberghi, agenzie di viaggio) e impiegavano il 16% della forza lavoro del Paese.
Ma c’era un nucleo di uomini determinati a consentire una massiccia penetrazione di capitali esteri in Italia.
Tra questi, Beniamino Andreatta, Guido Carli, Ciampi, e, ovviamente, Mario Draghi, eminenza grigia del Tesoro.
Avevano in comune l’idea - non del tutto errata - che le privatizzazioni fossero una scelta obbligata per far quadrare i conti, ma anche che potessero essere una soluzione per risanare una macchina che non funzionava più, per liquidare un sistema che rispondeva ormai solo ai partiti e generava inefficienza industriale ed enormi sprechi di denaro pubblico.
In sintesi, la logica di Tangentopoli.
Partecipare a quella strana crociera fu fatto, da parte di Draghi, come poi riferirà in parlamento, “pensando che per un'intera giornata, una volta staccatici dal molo, mi sarei trovato in contatto con quelli che sarebbero stati i miei clienti per i mandati da dare per le privatizzazioni”.
Nel suo discorso sul Britannia, pubblicato per la prima volta soltanto nel 2020 sul Fatto Quotidiano, Draghi afferma che le privatizzazioni saranno una scelta capace di 'scuotere' l'ordine socioeconomico d'Italia, purché vengano rispettate alcune condizioni.
Innanzitutto, vincolare i proventi alla riduzione del debito, invece che utilizzarli per la spesa corrente.
L'allora direttore generale del Tesoro disse: "Un'ampia privatizzazione è una grande - direi straordinaria - decisione politica, che scuote le fondamenta dell'ordine socioeconomico, riscrive i confini tra pubblico e privato che sono stati messi in discussione per quasi cinquant'anni, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante".
Per Draghi, dunque, le privatizzazioni possono risanare il sistema, facendo crescere l'asfittico mercato azionario italiano e "porteranno molte nuove azioni su questi mercati. L'implicazione politica è che dovremmo vedere le privatizzazioni come un'opportunità per approvare le leggi che possano potenziare l'efficienza dei nostri mercati finanziari” e generare cambiamenti istituzionali.
Nella maggiore parte dei casi, portando ad un aumento della produttività, con una gestione migliore e più indipendente oltre che ad una struttura più competitiva del mercato.
L'obiettivo lodevole sarà allora 'limitare l’interferenza politica' nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche.
Anche se dobbiamo considerare i possibili effetti delle privatizzazioni sulla disoccupazione - se essa dovesse aumentare come ricerca dell'efficienza - sulla possibile concentrazione di mercato e sulla discriminazione dei prezzi - quest'ultima in particolare per la privatizzazione delle utility". (corsivi miei, ndr)
Le 'buone intenzioni' di Draghi non sono poi diventate realtà.
I propositi che egli indicava da realizzare assieme alle privatizzazioni, non sono mai stati raggiunti e gli unici ad avvantaggiarsene sono stati alcuni gruppi privati senza scrupoli o il grande capitale straniero.
Le privatizzazioni sono state realizzate male e con grave danno dello Stato.
Basta pensare alla sorte di Telecom che era una grande azienda telefonica di Stato - all'avanguardia anche in molti settori tecnologici - ora finita in mani straniere.
O si pensi ad Autostrade, ceduta ai Benetton senza garantire ai cittadini tariffe eque, controlli e sicurezza come ha dimostrato il tragico crollo del ponte Morandi con i suoi 43 morti e migliaia di sfollati, garantendo invece gigantesche remunerazioni assicurate da contratti tra Stato e concessionari, rimasti a lungo segreti.
Quello che sicuramente aspetta il Nostro Paese, dal generale osannare a Draghi come futuro Presidente della Repubblica italiana, probabilmente non è altro che il portare a termine di una mission, quella per cui, un suo antico compagno di studi e di militanza nella scuola keynesiana del loro comune mentore, Caffè, cioè Nino Galloni, narra che Draghi passò repentinamente da una linea di pensiero ad un’altra, cioè al liberismo puro.
Galloni: "Non è che questa gente viene messa a fare il direttore generale del Tesoro o il presidente di qualcos'altro perché è 'bravo'. Ma perché deve svolgere una missione. Si cambia fronte nella vita per convenienza, non perché uno viene colpito dal liberismo sulla via di Damasco”.
(intervista concessa a Francesco Todano a Vox Italia, 2 Febbraio 2021)