Poche righe che - secondo me - meriterebbero una serie di riflessioni non da poco. E io sono troppo da poco per portarle avanti, almeno, da sola.
Però lo farò.
Io, a Maria, vorrei rispondere.
L’ho già fatto al telefono, ovviamente, ma mi son presa del tempo e ho consultato dei testi, per non essere preoccupata sempre e solo dei cosiddetti ‘problemi’ quotidiani che tutti usano, per non vedere quelli fondamentali. Come dicevo prima, sarà una risposta ‘da poco’, ma è sempre un tentativo, almeno, di risposta.
Don Giussani ‘si è tenuto le chiavi’ (non addirittura ’gettate via’, come un po’ appassionatamente diceva lei al telefono), perché, pur con tutte le finezze che l’eccellenza di Venegono gli aveva insegnato, era figlio di un periodo turbolento e tempestoso, in cui la Chiesa, persino ai suoi livelli più alti, prima delle chiavi, aveva perso la bussola, il timone. Che, come oggi del resto, non si capiva più bene da chi fosse retto veramente.
Raccontavo a Maria di quando, riordinando su sua richiesta l’archivio del parroco di dove abitavo anni fa, saltò fuori un ‘promemoria’ frutto di ‘zelo apostolico’ di qualche predecessore in parrocchia.
Diceva testualmente (me lo ricopiai, perché mi lasciò esterrefatta):
“L’unica regola cui - volenti o nolenti - non possiamo derogare, è la necessità, non dico di bandire, ma quantomeno ridurre al minimo ogni collegamento diretto tra questo tipo di incontri (suppongo quelli soliti giù i parrocchia coi giovani…) e proposte e la Chiesa in quanto tale, proprio per evitare di innescare quel perverso meccanismo di rifiuto che intendiamo scardinare”.
Ancora oggi provo un brivido a ripensare che dissociazione schizofrenica doveva provare in sé stesso il parroco che dava questo tipo di indicazione ai suoi responsabili…
È evidente che il timone non era retto dal famoso ‘Concilio’ quanto dall’ideologia del Concilio.
Con icastica sintesi, Monsignor Maggiolini - uno di coloro che hanno elaborato il Catechismo della Chiesa Cattolica, voluto da Giovanni Paolo II - in un suo volume uscito tempo addietro (“Fine della nostra cristianità”) dice:” Per timore di disturbare il ‘mondo’ questa ideologia vuole che viviamo ‘come se Dio non esistesse’, però pretende che ci si dichiari soddisfatti come se Dio esistesse”.
La questione è tutta qua: il precario e funambolico equilibrio - una volta accettato che non fosse tanto questione di cristianizzare l’umanità, bensì di umanizzare il Cristianesimo, che portava la Chiesa a ’rompere’ con il suo cosiddetto ‘passato’. Ed un parroco a ritenere di dover ‘ingannare’ circa le sue vere intenzioni (quelle di servire Cristo e, perciò, di amare veramente i suoi giovani).
La prima cosa che una visione prostrata alla cultura ‘moderna’ esige sono le ‘scuse’ dinnanzi a determinate e fondamentali esigenze di tipo ‘etico’, ancora accampate da chi parla di Cristo. Come diceva una grande Vescovo di Milano, il card. Colombo - docente e pedagogo di don Giussani, ma …ahimè appartenente ad un'altra epoca! -: “È sempre seducente alle passioni umane una dottrina religiosa che promette l'unione con Dio al di fuori dell’aspra via di una totale abnegazione e purificazioni delle nostre voglie corrotte”.
Ci sono alcune posizioni, a mio avviso, nella Chiesa post conciliare che, in don Giussani, come in mille altri educatori cristiani, mai teorizzate come dottrina, si sono però poste di fatto.
Per amor di sintesi elenco le più salienti, ma anche - a dire il vero - le fondamentali.
Sarebbero, per chi ancora non mi ha capito, le chiavi del tesoro.
- Il valore e l’identità da attribuire all’Eucarestia.
- Le opere esteriori come misura reale dell’impegno interiore.
- La riduzione e banalizzazione della figura del sacerdote.
- Il congelamento dei Sacramenti e il loro ‘riadattamento’, così come tutta la Liturgia, preghiera personale in primis.
La prima:
Il Cattolicesimo era, ed è, centrato sulla presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino.
Questo aveva determinato, lungo tutto il corso del secondo millennio cristiano, una spiritualità di adorazione del Corpo di Cristo eucaristico presente nelle specie sacramentali.
L’ideologia post conciliare strisciante, volendo dar rilievo alle molteplici forme in cui Cristo è presente nella messa, ha imposto la celebrazione come un atto del popolo coinvolto in svariate funzioni nell’azione sacra.
Mentre, prima, la consacrazione era l’atto fondamentale, il momento dell’adorazione, nella nuova messa cade questo momento centrale in cui il fedele prende coscienza della Presenza reale.
Ricordo con commozione un anziano signore che, seduto vicino a me durante la messa negli anni passati ma non remoti ancora, al momento dell’elevazione sussurrava, in un’esplosione di incontenibile gioia e stupore” Deus meus et Dominus meus”!
È la resa plastica di quanto appena detto: la fatidica frase di san Tommaso quando ha visto e toccato le piaghe del Signore…
Era per me lezione di veridicità di quanto predichiamo a parole, che, cioè, qui c’è Dio, e lo si può vedere e toccare.
Il senso del Mistero, così ormai diluito dal punto di vista della pietà, andrà sempre più perduto.
Ma, per chi ha partecipato a determinati Movimenti o Comunità, pur così utili a ricordare che esiste un’esigenza di altro tipo rispetto a quella del puro successo materiale, la Messa oggi non è altro che il riverbero del discorso dell’esaltazione della comunità. La celebrazione liturgica è l’occasione per l’autocelebrazione della comunità in quanto tale che si ritrova.
Pregare, adorare? tutte cose per ‘sentimentalisti’: quello che conta è raccontarsi le ‘proprie esperienze’, l’assemblea. Luoghi cioè dove chi è deputato a far da punto di riferimento, non fa altro che riprodurre gli stessi problemi degli altri che parlano e - giustamente - non può assumere altro ruolo che quello consolatorio. Se ci riesce. L’assemblea, nei casi migliori, come terapia di gruppo.
La seconda:
- La ricerca di Dio, intesa come dedizione interiore a Dio, viene scardinata perché sono ormai le opere esteriori che dicono la misura dell’impegno interiore di una persona.
In ciò è evidente il modello del ‘comunismo’ come modello alternativo in base a cui il Cattolicesimo viene letto come forma storica in una determinata situazione sociale, e, quindi, la ‘prassi’ come realizzazione di essa.
Quello che diviene il focus è ‘l’incidenza sul reale’, che però, paradossalmente perdendo di vista ‘la missione’.
Il termine originario di Cipriano e Origene “Extra ecclesiam nulla salus” che si riferiva all’unità della Chiesa, viene stigmatizzato come la negazione delle altre religioni.
Ma, censurando la dimensione del rapporto personale con Dio, si nega di fatto che la comunicazione storica, qui ed ora, della vita divina per gli uomini rivelata e data in Cristo, è l’essenza della Chiesa, e soltanto della Chiesa. Per di più, in pienezza, della sola Chiesa Cattolica.
Tutto ciò con l’idea di esprimere il linguaggio religioso nei limiti del linguaggio delle scienze moderne.
Ma la vita religiosa è l’espressione di una rottura del vincolo secolare, per affidarsi allo Spirito santo ed essere - sì presenti, eccome - nel tempo, ma come testimoni dell’eterno.
La terza:
- Se la prassi diviene la misura della vita religiosa, se l’apostolato diviene impegno sociale e conviviale, se alla divinizzazione del mondo si sostituisce la sua ‘umanizzazione’, allora la vita religiosa non ha semplicemente più senso.
Il punto più critico di tutto questo sistema in cui ideologia post conciliare e secolarizzazione della teologia, cioè del discorso su Dio, incidono maggiormente, è la figura del sacerdote.
È caduta la percezione del sacerdote ‘alter Christus’ come colui che rappresenta il Signore come causa strumentale personale e, quindi, è persona ‘sacra’.
Chi è il prete oggi?
Il leader della comunità.
Funzionalizzato ad essa, egli ne diviene al contempo padrone e servo, non il sacerdote.
La dimensione sacerdotale è messa a lato, non è più la prima e fondamentale dimensione del consacrato.
In realtà, però, il prete continua l’azione divinizzatrice e redentrice di Cristo. Egli, nella sua pur modesta persona, è la continuità dell’azione salvifica che il Signore ha lasciato per noi. Nel suo duplice aspetto: la liberazione dal potere di satana ed il dono della vita trinitaria.
Il prete ‘compago di strada’, orso Yoghi come il coadiutore della parrocchia dove ho insegnato catechismo io, quello che abbraccia e si svacca con tutti gli ‘amici’, peggio, quello che celebra come se stesse mandando in onda uno show televisivo, spostando accuratamente il Crocifisso dal centro dell’altare, acciocché i presenti non debbano essere disturbati nella magica visione di lui che celebra, è una ferita aperta all’interno della Chiesa.
E con Chiesa si intendono anche i famosi ‘movimenti’.
Dove, sovente, di tutto si parla, tranne che di ricordarsi che occorre anche confessarsi, oltre a raccontare la propria esperienza, e imparare come farlo.
Per taluni loro membri, se fosse stato a suo tempo loro ricordato, forse io sarei ancora in possesso di casa mia. E si celebrerebbero-forse- meno processi.
Certo, nell’organizzazione, il sacramento, in particolare quello della penitenza, può risultare superfluo.
Un inutile ingombro lungo il percorso.
Ricordo uno c, oggi leader di un Movimento, dare questa sapiente indicazione al ‘popolo’: "Confessarsi meno possibile, cambiando prete più possibile e scappando più lontano possibile subito dopo"
A meno che non gli si debba dei soldi, che gliene fregherebbe al prete di non rivederti più, l’attimo dopo che gli hai aperto il cuore (se glielo hai aperto)?
Me lo sto chiedendo ancora.
È solo su di noi che ricade la conseguenza di non aver un riferimento stabile per aiutarci a camminare.
Già, camminare… ma anche: arrivare. E, finalmente, aprire il forziere, non solo accontentarci di dire che lo abbiamo visto, il tesoro.
Dice la Dickinson:” Chi non ha trovato il Paradiso - quaggiù -
Lo mancherà certo lassù.
Perché gli Angeli prendono casa accanto alla nostra, ovunque ci spostiamo”.
I nostri nonni, che a messa andavano, per di più in latino, sapevano che esiste la Confessione, perché sapevano che esiste il peccato, e questa casa la conoscevano.
Emile Fabry, L'uomo davanti al suo destino, 1897