Chissà se oggi - là nel ritiro domiciliare a cui lo hanno costretto - gli potrà capitare di leggere quanto ho letto io e qui riproduco, scorporando dei passi ancor più decisamente nostalgici del Medioevo, di una cultura cristiana - espressione, decisamente saggia e commovente, di come anche un post-sessantottino possa saper usare riflessione e capacità critica.
Se la felicità è un sentimento individuale e che sfugge ad ogni catalogazione sociologica, esistono però con chiarezza dei presupposti per favorirne il suo contrario.
Stanno tutti nella convinzione dell’uomo moderno, illuminista, progressista, postindustriale che esista un diritto alla felicità, collettiva ed individuale.
Nella Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776 si parla di un diritto alla ricerca della felicità che però l’edonismo straccione contemporaneo ha introiettato come un vero e proprio diritto alla felicità.
E pensare che l’uomo abbia un ‘diritto’ alla felicità è renderlo ipso facto infelice.
La sapienza antica, non solo quella raffinita del mondo greco, ma la più semplice sapienza contadina, era invece consapevole che la vita è innanzitutto fatica e dolore, per cui tutto quanto viene in più è un frutto insperato e ce lo si può godere.
Pensano taluni oggi che la felicità sia legata, se non proprio alla ricchezza, alla possibilità di produrre infiniti e sempre più allettanti beni di consumo.
Insomma, al progresso.
E se il progresso, pur con la sua cornucopia di beni, per ora non è riuscito a creare un mondo di persone felici, è perché si sarebbe realizzato nel cosiddetto ‘mondo libero’, attraverso ineguaglianze intollerabili…
Ma è proprio la filiera ‘produzione-consumo’ su cui si basa il nostro modello di sviluppo a creare, sotto l’aspetto del benessere, una società attraversata invece da un profondo malessere.
Se come dice L.von Mises, uno dei più estremi ma anche coerenti teorici del capitalismo e dell’industrialismo, il progresso nel mondo libero è basato sull’invidia, non è certo l’invidia che fa star bene colui che ne è posseduto.
Le cose, dal punto di vista psicologico, andavano meglio nella società premoderna, preindustriale, feudale: nel 1650, un secolo prima del take off industriale, i suicidi in Europa erano 2,6 per centomila abitanti. Nel 1850 erano 6,9 per ogni centomila abitanti, quasi triplicati.
Oggi siamo mediamente vicini a 20 per centomila abitanti: quasi decuplicati.
E il suicidio non è ovviamente che la punta di un iceberg molto più profondo.
Nevrosi e depressione sono malattie della modernità.
Negli USA, il paese più ricco, più forte del mondo, che gode di rendite di posizione che gli derivano dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale, più di un americano su due fa uso abituale di psicofarmaci, cioè non sta bene nella propria pelle.
Il fenomeno devastante della droga, nel Medioevo inesistente, in seguito riservato alle élites intellettuali, oggi coinvolge ogni classe sociale, soprattutto i giovani, ed è sotto gli occhi di tutti. Sono cose su cui varrebbe la pena riflettere invece di continuare a credere ostinatamente, con l’ottimismo ottuso di candide, di stare vivendo nel ‘migliore dei mondi esistiti finora’.
Secondo l’OMS, l’avanzatissima Europa è la regione del mondo dove avvengono più suicidi, 15,4 ogni centomila abitanti, mentre il mediterraneo orientale è la regione dove ne avvengono di meno.
Nella bistrattatissima Africa - che, da quando abbiamo cominciato ad ‘aiutare’, per inserirla nei nostri mercati, si è ulteriormente impoverita (migrazioni docent), la percentuale dei suicidi è del 7,4 per centomila abitanti: la metà di quella europea.
Per i disturbi psichiatrici, la regione in testa a casa nostra è sempre la Lombardia, assieme alla civilissima Toscana, mentre la Campania, di cui continuamente segnaliamo le disastrose condizioni economiche e soprattutto sociali, occupa il penultimo posto.
C’è quindi del marcio ‘nel regno di Danimarca’, nel nostro modello di sviluppo che, dopo averci promesso - propagandandolo su ogni suo media - uno straordinario benessere, si è rivelato portatore di un ancor più straordinario malessere.
Se il sociologo De Masi mette nella lista nera ‘tutti coloro che negano l’esistenza stessa del progresso’, io appartengo a questa colonna infame.
Ma sono in buona compagnia: Joseph Ratzinger, quando era ancora cardinale scriveva: “Il progresso non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia piuttosto ad essere una minaccia per il genere umano.”
- Massimo Fini, su IL FATTO, 28 maggio 2022 -