Certo, non è una grande visibilità quella che, pur essendo il balcone sul retro, la situazione consenta: arriva lo stesso troppo inquinamento luminoso, persino il riflesso di un’insegna di negozio lampeggiante là in fondo.
Peró molte stelle ce la fanno a farsi ammirare lo stesso: il Cigno, Vega e Altair e una manciata di minuscole altre, quasi polvere di un glitter sfuggito a letterine di Natale che nessuno scrive più.
Queste nottate tra un lampeggìo di insegna luminosa - che ti fanno sentire un Marcovaldo a tutti gli effetti - e luci sparse qua e là, portano abbastanza lontano da dove non ci si sente di dover essere.
E, talora, come ieri è accaduto, la lontananza non è solo spaziale ma, impressionantemente, temporale.
Accade che - quando un luccichìo lassù non si metta a lampeggiare pure lui - come l’odiosa insegna, rivelandoti di aver contemplato un aereo anziché una romantica stella e che perciò sparirà nel giro di poco, lo splendore delle delle luci siderali che restano assuma facce, volti, immagini, soprattutto di chi non c’è più.
Le stelle - essendo la loro una luce che risplende, sì oggi, ma accesa anni e anni fa - hanno questo di speciale: sanno - perché le hanno viste - tante, troppe cose.
C’erano - mi son trovata a pensare con sgomento - e vedevano tutto, quella sera che Lidia, dopo esser stata amata, fu uccisa e abbandonata nel bosco.
Allora, circa una quarantina di anni fa, abitavo qualche paese del varesotto più in là del tragico bosco e, come tutti, alla notizia fui sconvolta.
La mamma di Lidia, dopo tutti questi anni, ormai anziana e vedova, inutilmente è stata illusa - riaprendo un logoro e vecchio processo, che il colpevole fosse punito.
Ma il risultato, ancora, fu che nessuno si possa ufficialmente ritenere colpevole.
Eppure, come scrivevo proprio qui tempo fa, piccolo era il mondo ed il giro di conoscenze della ragazza.
Ovvio che l’assassino si trovasse in quella ristretta cerchia.
Ma per salvare la facciata del ‘gruppo’, venne tutto insabbiato.
Addirittura, si disse - a caldo, per depistare immediatamente il più possibile - che era tutto un complotto contro il ‘gruppo’. Per diffamarlo.
E molti, nel ‘gruppo’, quasi tutti, ci credettero.
Solo le stelle sanno.
Ma quello che le stelle sanno è che la facciata non è solo del ‘gruppo’.
La facciata è di ognuno di noi.
In quel caso, lei erroneamente convinta che la maschera indossata dal suo compagno non fosse tale - quella, cioè di un uomo, mentre non era che un povero omosessuale - rappresentava, dopo avergliela fatta infrangere, una insostenibile minaccia.
Là, in quello squallido boschetto, nessuno oltre lei, solo le stelle, avrebbe mai saputo che la maschera rompendosi, aveva terrorizzato più lui che lei stessa.
La maschera, che tutti portiamo nonostante noi, come segno usuale di routine quotidiana, su chi è fallito umanamente è l’ultimo appiglio invece per schermarsi dalla morte.
Tolto quello, la propria o l’altrui vita: non c’è alternativa.
Lei, involontaria e ingenuamente innamorata causa di quello scatenarsi di aut-aut, lei che si ostinava a credere alla maschera, rivelando così a chi la indossava di essere solo una maschera, lei così vera davanti a lui così falso: lei doveva morire.
Se un attimo prima non avevi che uno sfondo infinito ai tuoi pensieri, di colpo queste immagini legate al dolore, alla menzogna e alla negazione, ti piombano tra quattro alberi dentro un boschetto pieno di ombre.
Di colpo l’Infinito che ti assorbiva al di là di tutto quest’inquinamento luminoso, si restringe in uno spazio ridottissimo ed angusto, delimitato solo dal dolore. Il tuo è anche quello altrui.
E, come queste sere tra un aereo e l’altro che si imbuca chissà dove, tra un lampeggìo di stupide insegne e il blu catodico di televisori che traspaiono da finestre aperte, le stelle sempre stanno a guardare.