È, infatti, un volume vintage, arrivato da un venditore di reminders.
Acquistandolo non pensavo certo di ricevere un autografo.
E, come sempre, quando un libro ha appartenuto ad altri, mi ha parlato di tante, troppe cose.
In particolare, dell’età che avanza, in questo caso della protagonista, ma anche della mia.
Il libro ha scelto senz’altro - perché i libri sanno e sentono tutto - di presentarsi a narrare un tramonto a chi - mentre esso veniva scritto - nasceva.
"Una particolare rivelazione di se stessa e della propria vita, le parve le fosse concessa in un giorno dell'autunno 1885.
Era rimasta sola a Laviano. I figli erano rientrati a Livorno con il padre. lei sentiva che -a differenza del marito sempre attivo nonostante i sessant'anni passati - che lo scopo stesso della sua vita di donna e di mamma era cambiato. Era la sua maternità in sé che metteva i capelli bianchi, trasferendosi in aspetti nuovi, inattesi.
Ottobre era alla fine, e pioveva a trina lieve sul giardino immobile.
Nel grigiore luccicante di umidità si attenuavano le linee dei lecci, dei cedri, dei cipressi. Qua e là querce spandevano chiazze d'oro brunito, velate dalla nebbia leggera.
Il giardino antico era come una dimora per lei mentre vi passeggiava avvolta nel suo scialle. Lei si sentiva in quel momento perfettamente all'unisono con quanto la circondava, e tutto diveniva un'immagine di quanto accadeva in lei.
Anche il suo autunno era inoltrato, anche nell'anima di lei si stendevano lievissime trine di pioggia: ma tutto era dolce, riposato e modesto.
Era vero che la forza di vivere maturava in oro, come le foglie delle querce: in quell'oro brunito privo di riflessi.
Come era vero che in lei esisteva ancora uno splendore di fronde e che l'inverno non avrebbe smorzato.
Ma soprattutto in lei agiva una forza non semplice e determinante come accadeva nella natura, bensì complessa e di tipo diverso, spirituale: la capacità di liberarsi poco a poco dai propri rami morti, dalle proprie foglie spente.
Liberare sé da sé stessa, lentamente, in silenzio.
Ripensò alle cose che l'angustiavano della vita familiare: incomprensioni degli altri, bronci più o meno lievi e più o meno segreti da parte di lei; egoismi inconfessati, propri e dei suoi cari.
Esili rami che dovevano morire e cadere, foglie inutili.
Si, i difetti istintivi dovevano maturare in oro, e macerarsi, poi, nella grande dolce umiliazione invernale.
Morendo le cose alimentano la terra buona.
Tutto era ordine attorno a lei, ordine posto dal signore.
In lei - che a differenza di tutto intorno a lei, era una persona - il dono diventava però splendida e paziente azione della grazia. lei poteva rispondere con l'amore e con la volontà.
Aiutare, attuare la graduale spoliazione di sé medesima, purificarsi infine entro il soffio onnipotente di Dio."
(da: Mia nonna e l’imperatrice, G. Papàsogli, Istituto propaganda Libraria, 1957)