"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

La posizione espressa da Benedetto XVI è la seconda: gli equivoci sono dipesi dal fatto che è stata applicata una ermeneutica sbagliata, che egli ha tentato di correggere nel discorso del dicembre 2005 alla Curia romana. Benedetto XVI, anche quando era il teologo e cardinale Ratzinger, ha sempre suggerito di attenersi ai testi e di considerarli dentro la tradizione della Chiesa e non viceversa.

(…) È mio parere che non si tratti solo di una deviata applicazione del Concilio, sulla quale per altro non ci possono essere dubbi, ma che il Concilio stesso, in taluni aspetti che subito indicherò, costituisca un problema. Ritengo anche che nel tempo la Chiesa dovrà chiarire e sistemare dottrinalmente molti problemi inaugurati dal Concilio, ripeto: dal Concilio e non solo dalla sua applicazione. Lo slogan “tornare al Concilio” non è sufficiente.
Su quali basi possiamo dire che il Concilio stesso costituisce un problema? Prima di sviluppare il motivo principale, accenno qui a due semplici constatazioni. La prima è che quanti hanno male interpretato e applicato il Vaticano II, tuttavia lo hanno fatto citando i testi del Concilio. La seconda è che già durante il Concilio, quindi prima ancora che iniziasse la sua applicazione, molte erano le menti che, magari anche dopo una prima adesione, avevano espresso profonde perplessità e preoccupazioni sul Concilio. Ricordo René Laurentin, Hubert Jedin, Divo Barsotti e lo stesso Maritain.
Veniamo ora all’aspetto principale per cui il Concilio deve essere considerato come problema, ossia al suo carattere pastorale. La pastoralità, che era la finalità stessa del Concilio e il motivo per cui fu convocato, si dimostra essere, paradossalmente, la principale causa di confusione e l’origine di tutti i problemi sorti. Ricordo che non c’era mai stato nella storia un Concilio pastorale e che Gianni Baget Bozzo scrisse che dopo il Vaticano II diventerà impossibile pensare ad un Concilio dogmatico, tanta è la cesura costituita da questa novità.   
Le parole con cui Giovanni XXIII espresse la finalità pastorale del Concilio nel discorso di apertura Gaudet Mater Ecclesia, suscitano ancora oggi notevole stupore per la loro ingenuità.
Egli sembrava pretendere che si potesse tenere ferma la dottrina rivelata e nello stesso tempo cambiarne l’esposizione, il linguaggio, il modo di porla e di porsi ponendola.
Come conservare integro il contenuto di una scatola cambiando la confezione esterna. A dire il vero, egli stesso dovette anche precisare, nel medesimo discorso, che ci sarebbe voluto anche un “ripensamento” della dottrina, ma nel suo entusiasmo ciò non sembrava rappresentare un grande problema.
Toccò a Paolo VI, come noto, esprimere la presa di coscienza di questo rilevante problema: cambiare il modo di dire la dottrina avrebbe comportato necessariamente anche un ripensamento della dottrina, ripensamento che si cercò di attuare nella forma dell’approfondimento più che dell’aggiornamento, non riuscendoci però né sempre né in modo chiaro.
Vorrei soffermarmi a sottolineare l’importanza di questo punto dalle conseguenze degne di grande attenzione.
Cambiare il modo di parlare al mondo – questo è l’intento pastorale del Concilio – richiede di porsi dal punto di vista del mondo, di capire le sue esigenze e, da quel punto di vista, ripensare la dottrina per poterla formulare in modo più conforme alle esigenze del mondo. Bisognava far proprio il linguaggio del mondo ed esprimere le verità di fede utilizzando quel linguaggio.
Questo impegno conteneva gravi pericoli, era una operazione di estrema delicatezza e il Concilio si era avventurato su un terreno minato.
Un punto era nevralgico: bisognava impedire che l’utilizzo del linguaggio del mondo non volesse dire anche l’utilizzo del punto di vista del mondo, ossia che la prospettiva pastorale avesse la meglio sulla dottrina.
Ancora più precisamente: bisognava evitare che il punto di vista del mondo esprimesse esso stesso una compartecipazione alla definizione della dottrina attraverso una ermeneutica mondana considerata come espressione dello Spirito.
Le due posizioni, si badi bene, non emersero solo dopo il Concilio ma erano presenti anche nei suoi lavori. La seconda era portata avanti dai teologi di punta, da alcuni noti vescovi europei e in generale dalla minoranza. Questo obiettivo, che i periti teologi avevano già in mente perché già virtualmente contenuto nella Nouvelle Théologie da cui provenivano, non entrò massicciamente ed evidentemente nei testi conciliari, ma non ne è nemmeno rimasto completamente assente. Non fu detto, ma insinuato, almeno nel senso di porre le basi perché potesse emergere in seguito.
La natura pastorale del Concilio produsse alcune conseguenze importanti sulla dottrina.
Ne elenco alcuni per brevità:
L’intento pastorale selezionò gli argomenti da trattare, per esempio non ci fu alcun pronunciamento sul comunismo per permettere la partecipazione degli Ortodossi – concordata con la Russia nel famoso incontro di Metz –  ossia in vista del dialogo ecumenico che il Vaticano II voleva sviluppare.
Faccio notare che la cosa è di grande peso: sia perché risulta incomprensibile volersi confrontare col mondo moderno evitando di parlare del comunismo che della modernità – come sostiene qualche filosofo – rappresenta la maturità; sia perché a quel tempo molti alti ecclesiastici erano nelle carceri comuniste.
Il fatto di non trattare dottrinalmente tutti gli argomenti del Credo ottenne l’esito di avere dei documenti dottrinali , sì, ma  non  di avere tutta la dottrina.
Qui nacque un equivoco importante: data la novità pastorale, e quindi la unicità di questo Concilio rispetto a tutti i precedenti, il Vaticano II fu assunto come chiave di lettura dei precedenti, ossia trasferì all’indietro il proprio intento pastorale.
Per questo fu assunto come un “dogma” dottrinale, ma con l’assurdo che non conteneva tutta la dottrina.
L’intento pastorale condizionò la trattazione teologica di taluni argomenti, come per esempio il rapporto tra Scrittura e Tradizione, per non dire cose troppo sgradite ai protestanti.
L’intento pastorale conteneva lo sdoganamento della modernità filosofica.
Si pensava che per parlare all’uomo contemporaneo si dovesse anche utilizzare i suoi strumenti di pensiero, che però erano improntati al principio di immanenza.
Implicitamente il Concilio conteneva, nei suoi stessi intenti, non sufficientemente chiariti, la rinuncia a che la rivelazione avesse delle pretese veritative ed epistemiche. La Fides et ratio di GPII e le riflessioni di BXVI su ragione e fede purtroppo non bastarono a correggere questa linea.
Direi però che la conseguenza principale della scelta pastorale, quella che spiega anche le errate applicazioni del Concilio, è un’altra e consiste nel linguaggio dei documenti conciliari, che non è più definitorio ma narrativo, esistenziale, sfaccettato, allusivo, teologicamente impreciso.
Questo per due motivi, ambedue pastorali: si voleva farsi capire da tutti e non si voleva più adoperare un linguaggio di condanna degli errori.
Due motivi pastorali che però ebbero conseguenze enormi sulla comprensione della dottrina conciliare.
Ciò contraddistingue principalmente la Gaudium et spes, la cui definizione di “Costituzione pastorale” è piuttosto problematica, ma è ben presente in tutti i documenti.
Il linguaggio allusivo e non definitorio ha introdotto concetti, come per esempio quello di “segni dei tempi”, che si prestano alle più varie manipolazioni, e ha prodotto documenti, come per esempio quello sul dialogo interreligioso, dal carattere generico e molto impreciso, con la responsabilità di aprire dei percorsi senza dare sufficienti criteri per intraprenderli in modo corretto dal punto di vista delle verità di fede.
Il linguaggio del Concilio rappresenta a mio avviso il principale guaio in esso contenuto, e ciò dipende direttamente dal suo carattere pastorale.
Da tutti questi elementi sembra emergere, in conclusione, che dietro la pastoralità del Concilio stava un progetto di “cambio di paradigma”, come si dice oggi, che il Vaticano II non assunse totalmente, ma che adombrò, offrendogli spunti, occasioni, spiragli, punti di appoggio.
Ai giorni nostri, i teologi più spinti in fatto di sinodalità fondano le loro tesi sui testi conciliari, come fa del resto il Cammino sinodale tedesco. Non si può dire che i testi conciliari contenessero in modo evidente e completo le attuali concezioni molto problematiche della sinodalità, ma si può dire che queste ultime possono ora trovare in quei testi dei trampolini per il loro lancio.
Si può pensare che si tratti solo di un’errata ermeneutica?


Dalla conferenza video del prof. Stefano Fontana
tenuta il 10 novembre 2022 su invito di Cooperatores Veritatis