A volte, anche animati dalle più rosee intenzioni, come in genere accade alle ragazze che vanno spose giovani, almeno a quelle di una certa epoca, capita in realtà di trovarsi ad entrare in una bolla psicotica, che, sfruttando la tendenza al sogno tipica delle persone positive, ingloba e metabolizza il sognatore/sognatrice e ne fa un essere totalmente in contraddizione con sé stesso.
Trovarsi nella bolla psicotica non è un semplice trovarsi a soffrire per le ordinarie difficoltà quotidiane e che a ogni essere umano, in dose più o meno massiccia, inevitabilmente non può non capitare.
La sofferenza di chi - suo malgrado - si trova ad essere risucchiato, credendolo amore, in una bolla psicotica, è una sofferenza particolare.
Una sofferenza che conduce il malcapitato a non sapere più chi sia e cosa fare.
La bolla psicotica è quella per cui, anche se ‘genio’ universale colui che la produce - tessendo relazioni malate attorno a sé, magari ammantate di sentimenti e intenzioni ‘buone’, - in lui emerge una contraddizione insanabile tra cosa pensa e cosa realmente fa.
Un esempio è la pagina di diario di Sof’ja Tolstaja datata 28 agosto 18:
"Oggi Lev Nikolaevič ha detto pubblicamente che l’ideale del cristianesimo è il celibato e l’assoluta castità.
Alla mia obiezione che i due sessi sono stati creati da Dio per Sua volontà e quindi non c’è ragione di andare contro di Lui e la legge di natura, Lev Nikolaevič ha detto che l’uomo, oltre ad essere un animale, ha anche la ragione, che questa ragione deve essere al di sopra della natura e che l’uomo deve essere proteso verso lo spirito e non preoccuparsi della continuazione del genere umano.
Questo potrebbe essere accettabile, se Lev Nikolaevič fosse un frate, un asceta e avesse scelto di vivere nel celibato.
Ma si dà il caso che io, nel frattempo, per volontà di mio marito, abbia avuto da lui sedici gravidanze: tredici figli vivi e tre non portati a termine.
A quei tempi lui diceva a me che lui non avrebbe potuto né lavorare, né scrivere né stare bene se mi fossi rifiutata di stare con lui.
Ora dopo quarantotto anni, come se fossi colpevole di quello che lui richiedeva, mi ritrovo al suo cospetto sentendo che lui anche per questo è pronto ad odiarmi, a negare tutto quello per cui è vissuto e cercare ‘unioni spirituali’ che trovano espressione nel fatto che Čertkov ha preso le sue carte, nelle centinaia di fotografie che ha fatto a Lev Nikolaevič e ancora in chissà quali misteri che ci sono fra lui e il signor Čertkov".
Questo Čertkov, presenza inesorabile a fianco di Tolstoj negli ultimi anni della sua vita, sarà poi quello che impedirà alla moglie di vederlo un ‘ultima volta, al momento di spirare, nella stazioncina di Astapovo.
Qui non si tratta di commiserare una moglie sposa inconsapevole di un omosessuale che - forse soltanto all’alba degli 82 anni, in limine mortis non tenterà più ni nascondersi.
Quanto colpisce e spinge alla compassione è un dolore che non ha apparentemente nome.
Il dolore che da due settimane appena dopo le nozze, una ragazza di 18 anni percepisce già perfettamente. E, nel percepirlo, si fa scudo dall’abisso che esso rivela, con l’attribuire alla propria pochezza la colpa di tutto.
Il 13 Novembre del 1863, a un anno e un mese dal giorno delle nozze, scrive:
“Io non ho minimamente realizzato un ideale e non posso realizzarlo. Sono stata sprecata.
Io sono solo l’appagamento di ogni esigenza: sono la bambinaia; sono la mobilia d’ogni giorno; sono la donna.
Mi sforzo di soffocare in me ogni sentimento umano.
Finché la macchina è in movimento, fa riscaldare il latte, lavora a maglia una coperta, è adatta al bisogno del momento, va a vanti e indietro, per non fermarsi a pensare, la vita è possibile e sopportabile. Ma se sto sola un minuto, penso: così non si può vivere”.
E così Sonja ci vivrà ancor ala bellezza di altri quarantasette anni.
D’altro canto, il marito trova che il matrimonio ha un suo preciso scopo: lo scrive alla cugina a Pietroburgo, in contemporanea con le parole di tono così differente che la moglie affida al suo diario…
Tolstoj scrive: "Mi ero stancato di fare i conti con me stesso. Per quanto riguarda lei, non posso dire la verità (! Esclamativo mio): ho paura di me stesso e della sfiducia degli altri. Una cosa è certa : la sua onestà, la sua dirittura umana, precisamente umana"
Ma la cosa che colpisce per la sua tragicità è la seguente frase: "Mi ero quasi adattato ala mia inferiorità e cominciavo a considerarmi, se non del tutto, almeno relativamente buono. Ora invece sento la mia inferiorità ad ogni momento, non appena mi misuro con Sonja, “ma quelle tristi righe non cancello" (citazione da Puškin, Ricordo).
Mi fa paura vivere, ora: mi sembra di sentire la vita, sentire per davvero ogni momento di vita, così diverso da prima, essenziale non provvisorio”.
Il matrimonio come ‘difesa’, tentativo di uscire dal provvisorio legato al vanificare ogni input di serietà nei confronti di essa. Esattamente come fa il bambino quando, per non crescere, passa da una cosa all’altra, da un interesse all’altro, da un ‘emozione all’altra. Poi…arriva il matrimonio!
Il matrimonio come difesa da quanto di inaccettabile si percepisce in sé, che non si può o vuole riconoscere, altro non può essere che l’istituzionalizzazione della proiezione in un altro, fuori di sé , del ‘nemico’ che abita in sé. In questo senso, la storia di Tolstoj il quale afferma di vedere nella moglie una creatura tanto migliore di lui, non stupisce per il suo epilogo così patetico di fuga - con un amico uomo. Fuga da colei che, ricercata all’inizio come ancora di salvezza per la sua semplicità ed onestà, diverrà poi - a misura che il vizio non può essere estirpato - misura intollerabile di paragone, giudizio netto su di sé e su ciò che alla propria coscienza non da pace.
Ma cosa sarà mai questo matrimonio?
Sarà propriamente quanto Sonja leggerà, un bel giorno, dopo ventinove anni di una convivenza che rese sua la bolla psicotica , senza mai né individuarla chiaramente , né mettendo mai in atto gesti per uscirne che non fossero tentativi disperati di sopprimersi.
Il 14 Dicembre 1887, lei, copista a tempo pieno di tutto quanto produce il marito (ricopiò manualmente sette volte il manoscritto di Guerra e Pace, tanto per dare un ‘idea) trova - e ricopia - la seguente frase nei Diari di Tolstoj: "L’amore non esiste. C’è la necessità carnale del rapporto e la necessità razionale di avere una compagnia nella vita".
Non proseguo oltre, ma mi riservo in momenti più tranquilli di portare a termine la passeggiata in compagnia di Sonja. Donna che ha lottato per il suo amore, anzi i suoi amori, i figli, preferendo pensarsi inadeguata e ‘sbagliata’ piuttosto che distruggere quanto il suo sogno aveva investito sulla bolla psicotica di un altro.
Concludo con un'altra pagina di diario. Una pagina in cui esce allo scoperto la vita come verità, nella sua semplice ordinarietà.
È il 3 Luglio del 1887.
"Sergej sta suonando al violino la sonata a Kreutzer di Beethoven. Che forza e che espressione di tutti i sentimenti!
Ho sul tavolo rose e reseda, stiamo per fare un pranzo meraviglioso, il tempo è dolce, caldo dopo il temporale; intorno a me i bambini sono cari - poco fa Andrjuša stava rivestendo diligentemente le sedie per la stanza dei bambini - poi arriverà Lev, tenero e caro, ed ecco la mia vita, che consapevolmente godo e di cui ringrazio Dio. In tutto questo trovo bene e felicità.
Ma… sto trascrivendo l’articolo di Lev, La vita e la morte, in cui lui indica un bene del tutto diverso.
Quando ero giovane mi ricordo che anch’io tendevo a quel bene -la rinuncia, l’assoluto- tendevo perfino all’ascetismo.
Ma il destino mi ha mandato una famiglia, ho vissuto per essa, e ora, secondo mio marito, dovrei arrivare a riconoscere che questo non è stato esattamente quello che doveva essere, che non è stata ‘vita’. Arriverò mai a comprenderlo con il mio pensiero?”
Carla Vites il nuovo libro: Com’è bello il mondo e come è grande Dio