Un esempio?
Questa boiata che da anni ormai ci contrabbandano come Festival della Canzone italiana. Cioè Sanremo.
Che sia un carrozzone di brutture e di trovate clownesche, purtroppo vedendo come in generale sia ridotto il concetto di ‘musica’, non è la cosa che più sconcerta.
Io che deliberatamente mi astengo da anni dal vederlo, non posso però sottrarmi alle eco che solleva, sia sulla carta stampata che nei vari Telegiornali.
E così, quando ho dovuto ammirare il Presidente della repubblica spuntare col suo sardonico ed enigmatico sorrisino da un palchetto del Teatro di Sanremo, per un momento ho creduto di avere dinnanzi un’opera d’arte surrealista. Quella grazie a cui Brèton ci dimostrò - o tentò di farlo - che un tavolo da dissezione con sopra un ombrello e una macchina da cucire fossero, loro tre proprio perché così adunati, la forma del Bello.
Una forma che dissolve intenzionalmente ogni idea di forma, per poi passare a quella di assemblaggio casuale e totalmente soggettivistico secondo le intenzioni dell’autore.
Se il Festival, come tutti si ostinano a dire ‘rappresenta la società italiana’ chi può dire che la società italiana voglia ascoltare in prima serata per giorni e giorni l’idea che di se stessa ha nella testa solo qualcuno?
E come può un ruolo pubblico fondamentale - come quello di un Presidente, che in teoria rappresenta tutto un Paese - accordarsi con l’agente di un artista qualunque, sia pure strapagato, per mettere l’avvallo della sua presenza ad una situazione che è totalmente soggettivistica e improntata ai gusti e alle idee di alcuni?
La logica dell’audience costringe anche le massime cariche dello Stato a sottomettersi a comparsate senza senso, ma… pur di affermare che cosa?
Il fatto surreale vero e proprio sta nella considerazione di quel 60% di share che - pur facendo sembrare una scelta massiccia del popolo stare lì in quei giorni davanti alla TV, non indica affatto l’equivalente di gradimento e consapevolezza dei contenuti propinati dal palco, tra lustrini, tatuaggi, nude look e fiori fatti a pezzi. Il fatto surreale è come quel 60% di share, cioè di teleutenti, cioè di persone, abbia potuto essere stata incatenata ad assistere a quanto in altri contesti non avrebbe mai scelto di assistere, ma convinto, questo fatidico share, mentre stava vedendo una cosa di non stare in realtà avallandone un’altra.
È così che meditavo a quanto tutti, in realtà spesso, anzi troppo spesso, ritenendo di essere coinvolti a fare una determinata cosa, poi ad uno sguardo meno annebbiato, risultiamo di stare facendone tutt’altra.
Capita molto più di frequente di quanto non si riesca ad immaginare. Per esempio, si va a fare una vacanza, e si crede di stare divertendosi perché ci si ritrova in tanti e in luoghi pubblicizzati come il massimo delle locations turistiche, ma in realtà non si potrebbero elencare le cose che - se non fossimo surrealisticamente artisti anche noi - non accetteremmo mai di considerare ‘belle’.
E che dire delle corvée, anche benefiche, a cui ci sottoponiamo ‘liberamente’, convinti di stare facendo tutto per amore e in realtà scopriamo che è solo per odio: odio inconfessato ed inconfessabile per noi stessi.
In attesa del giorno sperato fervore in cui le cose che facciamo, i pensieri, gli inviti a bere un drink, le vacanze, gli impegni di lavoro, gli amori coincideranno finalmente con i motivi per cui tutto facciamo, cerchiamo “un po’ di blu dove blu non c’è”.
Ed è così che lo trovi, del blu.
Otto belle lattine di birra, vuote ed abbandonate, tutte blu, lì in mezzo al verde smeraldo di un prato incredulo e violato.
Un metallico cespuglio di fiori blu, ammucchiati sul bordo della stradina che stai percorrendo.
Meno male che in tasca c’è il sacchetto vuoto della carta appena gettata (nel contenitore della differenziata): e vai! con la raccolta delle lattine: tanto dei fiori - vedi Sanremo - che ce ne facciamo?