Anche un fedele qualunque, a suo modo, come laico qualunque, ma figlio di Dio, può interessarsi ad argomenti che - sotto una comunicazione divulgativa che ne dovrebbe rendere condivisa la partecipazione - troppo spesso, in realtà, lascia alle modeste risorse del singolo arrabattarsi per tentare di spiegare cosa veramente accada.
Così, raccogliendo spunti qu e là, ecco alcune riflessioni sul concetto di ‘Sinodalità’ e su cosa vi covi sotto
Il 21 novembre del 1964, nella Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, la collegialità è introdotta al capo n.22. Secondo le più innovatrici interpretazioni di tale passo, il Papa non dovrebbe più conservare un primato ‘verticale’ sugli altri vescovi, ma solamente un primato ‘orizzontale’, onorifico, nel quale egli sarebbe un vescovo e le varie conferenze episcopali altro non sarebbero che organi consultivi.
Interessante notare come nel documento il termine "collegio" ricorra 28 volte, quello collegialità 1.
Nel Vangelo nessuna.
La famosa Nota explicativa praevia - redatta su indicazione del card. Ottaviani nell'intento di correggere le incongruenze che erano state prontamente rilevate - verrà regolarmente ignorata e dunque disattesa.
Si sta dipanando sotto i nostri occhi e tenta di imporsi una nuova 'forma' di esercizio del ministero petrino, già potenzialmente inquinato dalla "collegialità", alla quale si aggiunge ora, del tutto inopinatamente, la cosiddetta "conciliarità" trasformata in "sinodalità.
La pienezza della suprema autorità, che appartiene al Romano Pontefice e al collegio dei vescovi in comunione con lui, non come unico soggetto, ma come due soggetti distinti, si estende alla Chiesa universale, e anche alle Chiese particolari, ai singoli sacerdoti e fedeli, mentre la «pienezza» della potestà del vescovo si estende soltanto alla sua Chiesa particolare.
Inoltre, la potestà del vescovo è limitata anche per materia all’interno del suo territorio, per il fatto che il vescovo e la sua Chiesa locale sono destinatari delle leggi universali o comuni e sono sottoposti alle riserve enunciate dal c. 381, § 1.
1.1 - I prodromi, la collegialità
Quando il 21 novembre 1964, per la chiusura del terzo periodo del Concilio ecumenico, Paolo VI afferma: «la Chiesa non si compone soltanto della sua struttura gerarchica, della sacra Liturgia, dei Sacramenti, dei suoi organismi» per citare la mistica unione con Cristo.
Però, poi, secondo una visuale inattesa, traccia sostanzialmente il passaggio da una Chiesa, vista come ‘gerarchica’ ad una Chiesa vista come ‘comunione di fratelli’. Da una Chiesa vista come tesa a difendere i suoi spazi e i suoi diritti, a una Chiesa che vuole essere solo lievito nella pasta. Lievito all’interno delle sue strutture, lievito all’interno delle altre religioni.
L’auspicio era di passare da una Chiesa vista come chiusa in sé stessa e preoccupata della sua autoconservazione – ma era veramente solo questo la Chiesa di Dio, prima del mitico Concilio Vaticano II? – a una Chiesa come comunità ‘aperta al mondo’, ‘popolo di Dio in cammino’. Un principio che gli sembrò doversi esplicare -in quanto fin allora solo implicito nell’ecclesiologia cattolica- fu quello della collegialità, divenuto uno dei maggiori criteri di riforma della Chiesa.
Il problema nasce dalla contraddizione tra la democratizzazione che scaturisce da questa nuova visione di Chiesa e la sua costituzione divina.
Occorre rilevare come, da questa ambiguità di premessa sottotraccia, viene surrettiziamente applicato alla Chiesa il principio che regola le comunità civili, ignorando la differenza fondamentale tra esse e Chiesa di Cristo.
Le comunità civili prima si pongono in essere e poi si danno e formano il proprio governo. In ciò esercitano la loro libertà, e in esse stesse si fonda originariamente e fontalmente ogni giurisdizione comunicata alle autorità sociali.
Al contrario, la Chiesa non si è data da sé stessa né ha formato da sé stessa il suo governo, ma è stata fondata in toto da Cristo, il cui disegno preesiste all’esistenza stessa dei fedeli. La Chiesa è dunque una società sui generis in cui il capo è anteriore alle membra e l’autorità viene prima della comunità.
Quindi, una dottrina che ponga la sua base nel popolo di Dio democraticamente concepito, e, così, nel sentimento e nell’opinione del popolo di Dio, è antitetica a quella della Chiesa dove l’autorità non è chiamata ma chiama, e dove tutti i membri sono servi di Cristo, obbligati al precetto divino.
Sui poteri del Pontefice e sul suo rapportarsi alla collegialità molto influisce l’ambiguità della Lumen Gentium alla quale Paolo VI, messo sull'avviso dai Padri del Coetus Internationalis Patrum, cercò di rimediare con la Nota Praevia .
Tuttavia, tale nota, con molto ‘spirito progressista’, posta in calce alla Costituzione, verrà sistematicamente "saltata" essendo, appunto, "praevia"...
La Chiesa è per sua natura gerarchica. E il Papa (CIC, can.331), in virtù della sua funzione di Vicario di Cristo, ha nella Chiesa un potere ordinario supremo, pieno, immediato e universale, che può sempre esercitare liberamente. Il potere gli deriva dalla sua funzione e non da una sorta di presidenza del collegio episcopale.
Del resto, il can. 1404 recita: Prima Sedes a nemine iudicatur.
La dottrina del Vaticano I e del Vaticano II, nella Nota praevia, definisce il Papa principio e fondamento dell’unità della Chiesa, giacché è conformandosi a lui che i vescovi si conformano tra di loro. Non è possibile, pertanto, che essi poggino la loro autorità su un principio immediato che sarebbe comune alla loro potestà e a quella papale.
Ora, con l’istituzione delle Conferenze episcopali e con gli organismi Sinodali la Chiesa è un corpo policentrico a vari livelli nazionali o provincie locali. Conseguenza immediata è un allentamento del vincolo di unità che si manifesta con ingenti dissensi su punti gravissimi.
La nuova ecclesiologia conciliare sancita da Lumen Gentium si armonizza con la Pastor æternus circa la giurisdizione universale del Romano Pontefice (n.18), però azzarda un avventuroso allargamento di questa mediante la dottrina della collegialità vescovile come organo di governo accanto e analogo a quello del Sommo Pontefice (nn.19, 22). Osserviamo che la dottrina della Chiesa è quanto la sua Tradizione, dagli Apostoli sino ad oggi, presenta e propone come tale: la collegialità non ne fa parte.
Lumen Gentium, n.19 arriva a dichiarare: «Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé quelli che egli volle, e ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare il regno di Dio (cfr. Mc 3,13-19; Mt 10,1-42); ne fece i suoi apostoli (cfr. Lc 6,13) dando loro la forma di collegio…»
Non mancano perplessità!!! se si pensa che il termine ‘collegio’ per designare l'episcopato non ricorre né nella Sacra Scrittura né nella Tradizione della Chiesa antica.
Apostoli, in realtà, vuol dire ‘mandati’: il Signore li manda a due a due non in ‘collegio’... C’è anche da osservare che il concetto di ‘collegio’ si fonda su una potestà giuridica e morale, mentre si diviene vescovi per via sacramentale, ovvero mediante un quid che è nel contempo fisico e mistico, come lo è l'unità della Chiesa.
La collegialità, per effetto della creazione di strutture sovra diocesane come le Conferenze Episcopali, rischia di diminuire non solo l'autorità del pontefice ma anche quella dei singoli vescovi nelle loro diocesi.
Non è pertanto peregrina l'osservazione che, se i vescovi, per diritto divino, costituiscono un vero e permanente collegio in senso stretto con a capo il romano pontefice, ne deriva, come prima e non unica conseguenza, che la Chiesa in modo abituale dovrebbe essere governata dal Papa con il collegio episcopale.
In altre parole, il governo della Chiesa, per diritto divino, non sarebbe monarchico e personale, ma collegiale. Dobbiamo ammettere che fu Giovanni Paolo II ad inserire la collegialità nel nuovo Codice di Diritto Canonico, trasformandola così in legge (Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983).
Ad oggi, quindi, si manifesta una duplice inconciliabilità nel principio del rapporto tra Primato e collegialità.
La Lumen Gentium, al n. 22 evidenzia una inclinazione degli gli estensori, che, ultimamente, manifesta la difficoltà di collocare all'interno di una concezione collegiale del ministero episcopale che scaturisce da ‘un'ampia prospettiva storico-salvifica della Chiesa come communio’, la dottrina del Vaticano I, la quale si distingue - sempre secondo loro - per una visione della Chiesa apologetica, giuridica e astorica ed inoltre ancora concentrata sul Papa.
La Chiesa , certamente, in tutte le epoche, risente di -ismi di vario genere, dai quali la sua storia terrena , che è anche la nostra, non è mai esente. Ma assolutizzare certi aspetti per giustificare una sorta di vera e propria la rivoluzione copernicana è un’operazione prevenuta e ideologica.
Di certo era necessario aggiornare ciò che era rinnovabile e meglio organizzabile, non lo era certamente questo strisciante tentativo di rifondare la Chiesa.
Si pretende dunque che la visione Chiesa-comunione sia la scoperta del Vaticano II e vada a sostituirsi a quella di società perfetta ad esso antecedente, una scoperta che oggi si vuol fare apparire come dominante , più vicina alle assonanze bibliche ( specificamente neotestamentarie), e come se potesse , finalmente, sintetizzare alla perfezione tutto il rapporto con Dio. Rapporto che - si pretende fosse - fino al Concilio Vaticano II non esattamente compreso.
Ma il rischio più grande è quello di ricondurre tutto ad un'interpretazione puramente psico-sociologica, confinato e determinato ai bisogni e alle attese umane che, volta per volta, storicamente e quindi relativisticamente, si presentino.
Ci piace concludere con l'affermazione del Cardinale Burke «... il Sinodo dei Vescovi non ha l’autorità di cambiare né dottrina né disciplina. La natura e lo scopo del Sinodo dei Vescovi sono descritti nel can. 342 del Codice di Diritto Canonico [...] Il Sinodo dei Vescovi non è convocato dal Romano Pontefice per suggerire cambiamenti nella dottrina e disciplina della Chiesa, ma piuttosto per assistere il Romano Pontefice nella salvaguardia e nella promozione della sana dottrina riguardante la fede e i costumi, e nel rafforzamento della disciplina per la quale le verità della fede sono vissute nella prassi».
È per questo che, altamente disturbante risulta il ricordo del rifiuto ostinato, da parte del Papa attuale, rifiuto protratto fino alla morte di quest’ultimo, di ricevere il grande Cardinale emerito di Bologna Carlo Caffarra, quando questi, in mille modi, assieme ad altri tre confratelli porporati, chiese di essere ricevuto in merito all’apparizione della Amoris Laetitia.
(immagine: meme: Ultima cena in tempo di Covid - fonte: web)