Paradossalmente ‘istruttivo’ poiché, certamente, la TV non è proprio qualcosa di istruttivo.
Ma fissarla, manovrando con le dita il telecomando, è l’unica cosa che si riesca a fare.
E così, al netto di pesanti documentari sulla natura o la storia dell’antica Roma - sempre utili rispetto al vuoto cosmico di quasi tutto il resto in onda - in questo periodo è dato veder passare sotto gli occhi dozzine di filmetti, di livello molto mediocre-ammettiamolo-ma tutti dedicati al Natale.
Tu sei lì rattrappito, mentre il giorno declina prestissimo, e ti ritrovi avvolto, oltre che dalla pietosa coperta, da una fantasmagoria di luci e colori rossi e d’oro, segno inequivocabile -per i registi americani delle serie su citate - del Natale.
Meglio, dello ‘spirito del Natale’, come lo chiamano nei film.
Quello di cui invariabilmente si parla, è appunto ‘lo spirito del Natale’ e come ripristinarlo in quei cuori che ostinatamente si negano il piacere di ammettere che esista.
Le trame sono praticamente tutte identiche: ritrovare, tornando da una grande città verso piccole località di provincia da cui per tanto tempo si era mancati causa lavoro, lo ‘spirito del Natale’.
Le ambientazioni poi sono pressoché identiche e fatte in serie, ma molto accattivanti nella loro scontata ripetitività.
Si tratta di enormi case in legno immerse nella neve, all’interno delle quali non manca mai un caminetto dal fuoco scoppiettante e enormi calde cucine (rigorosamente open space) con forni dove cuocere tonnellate di biscotti.
Inoltre, l’esterno delle dimore in questione, come qualunque ambiente, qualunque stanza o angolino anche il più remoto, perfino i bagni, è rutilante di luci, lucine, canele, alberi addobbati e corone natalizie.
Paragonando tutto questo circo di calore e colore con la lucida determinazione di morte che caratterizza gli americani durante tutto l’anno, causa attitudine ad esportare guerre e istigazioni alle stragi fratricide in giro per il mondo, è doppiamente stupefacente osservare questi film natalizi.
Lo è sia per i loro cast raffazzonati, con attori dalle facce e dalla recitazione scadentissima, ma lo è subito dopo per la loro ipocrisia.
Ipocrisia - e questo è di conforto - a chi li guarda non trovando altro da fare che non può celare qualcosa di vero.
E intendo, quel qualcosa che effettivamente non ci possiamo strappare dal cuore, soprattutto ogni anno all’avvicinarsi del Santo Natale.
Per i registi e produttori di questi film non c’è altro da festeggiare che un sedicente ‘spirito natalizio’, e provano a dimostrare che esso appare non appena si cuociono alcune dozzine di biscotti o ci si infila in maglioni verdi e rossi, ovvero quando tutti insieme, renitenti o meno che si fosse giunti nel luogo fatidico, si assiste all’accensione dell’albero nella piazza centrale del paese.
C’è qualcosa di vero - secondo me - anche proprio in questi decori eccessivi e in questi alberi che reclamano l’accensione delle loro luci, perché la luce è sempre un fatto pieno di rimandi che - dalla notte dei tempi, in particolare da una certa Notte, quella di Betlemme - scatenano in noi la voglia di sperare.
“La Luce che illumina le nostre tenebre”.
Ma soprattutto in queste quasi monotematiche repliche di storie sotto l’albero la scontatezza di alcuni leitmotiv, che si rivelano -oserei dire - strutture simboliche vere proprie.
In esse, anche senza chiamarci Lévi Strauss vediamo forme strutturali della persona umana. Della sua autocoscienza.
Del suo desiderare.
Esse sono:
L’impossibilità di vivere senza stancarsi (crisi sul luogo di lavoro)
La necessità di un luogo dove fare sosta e recuperare la propria posizione nel cosmo
L’identificazione di questo luogo di sosta e di rigenerazione nei luoghi dell’infanzia o dove comunque sia possibile sperimentare un ‘ritorno’ alla casa, alla famiglia
La memoria (riattivata proprio in questo periodo dell’anno) della importanza della fanciullezza
La constatazione che i vecchi ‘valori’ - famiglia, madre, padre, nonni - sono quelli che, soli, danno forza, anche una volta diventati adulti.
La necessità di porre gesti di gratuità per stare bene.
Il bisogno di voler/dover fare del bene senza attendersi nulla in cambio
È vero, queste urgenze riattivatesi sotto Natale, la regia immancabilmente le coordina con l’arrivo di un amore. Occorre che a Natale ci si ritrovi innamorati: che accada il magico incontro con il partner, con cui tutto l’anno non si è mai potuto incrociarsi.
Quindi un Bambino che nasce in una stalla, assolutamente non potrebbe colmare l’attesa con cui tutti questi personaggi si sono fortuitamente ritrovati nella casa d’origine imbiancata dalla neve a sfornare biscotti Ci vuole un amore molto umano e dotato di maglione dai patetici decori natalizi.
Chissà perché coloro che in città avevano imparato a diffidare dei loro love-affaires, in questo periodo dell’anno, e in queste condizioni atmosferiche di freddo siderale, deglutendo bollenti cioccolate calde, improvvisamente scoprono che ci si può ancora innamorare, senza essere presi in giro dall’altro.
È affascinante tutto ciò.
C’è qualcosa che anche gli occhi appannati dalla febbre vedono chiaramente, in qualunque maniera kitsch lo si stia narrando.
Ognuno di noi vuole che ci sia un ‘prima’ (casa/paese natale); una famiglia; dei ricordi; calore; e soprattutto la speranza di essere amati, sia pure non dall’Amore, ma da un portatore di golf con renna.