E in quel giorno, quando eravamo bambini, mia madre ci portava a ‘fare i sepolcri’.
Cioè a visitare almeno tre chiese, se non sette - altro numero designato - per sostare dinnanzi al sepolcro di Cristo che, in quel giorno, ogni chiesa aveva predisposto.
Il ‘sepolcro’ era una installazione (per usare termini moderni) nel centro della chiesa stessa, attraverso la quale si riproponeva al popolo qualcosa che ricordasse la morte di Cristo.
Poteva trattarsi di un catafalco funebre, di un anfratto ricreato ad hoc, di una semplice esposizione, contornata di fiori e lumini accesi, della statua di un Cristo deposto dalla Croce, in dotazione in quasi tutte le chiese.
Il colore prevalente era il nero, il colore del lutto.
Tutto ruotava intorno al profondo rincrescimento per la morte di Qualcuno, Giusto tra i giusti, Innocente tra gli innocenti da piangere e compiangere.
Il venerdì di due giorni fa, di chiese ne ho visitate tre (se non si fosse potuto visitarne tre differenti, mia madre ci spiegava che si sarebbe dovuto rimediare entrando ed uscendo dalla stessa chiesa per tre volte consecutive: così era de facto la tradizione della visita ai ‘sepolcri’).
Ho notato che soltanto in una ho potuto ricordare, contemplando il ‘sepolcro’ ivi allestito, che Cristo Gesù era morto, che, cioè, il Venerdì Santo è la memoria di una morte.
L’installazione, nella sua semplicità era molto suggestiva: una croce formata da tanti piccoli vasi di begonie, rosse come il sangue, circondata da lumini accesi.
In fondo, un ripiano coperto di velluto nero a significare dove Cristo era stato sepolto e, dietro a tutto, due angeli di cartone, ingenui ma evocativi, che indicavano con il dito verso l’alto.
Nelle altre due chiese, una delle quali sede parrocchiale, ho trovato una tavola raso terra (la terra, infatti, è luogo dove dovrebbe stare una tomba, non una tavola, ma… nel dover ‘sostituire’ il segno di morte in qualche modo, non si era evidentemente potuti sfuggire al luogo ‘basso’) dove nemmeno dei pigmei avrebbero potuto accostarsi per mangiare e su di essa dodici piattini di terraglia con relativi dodici bicchierini.
Il tutto con una pagnotta di cartone dipinta a poca distanza, giusto perché chi guardava non restasse senza alcun riferimento simbolico.
La terza chiesa visitata, dinnanzi ad un altare laterale, esprimeva, invece, una profusione di tulle azzurro, color del mare, che infatti proprio questo doveva significare e, in un angolo, la ricostruzione di una barca, con una rete adagiata sopra e qualche bel pesce arrostito poco distante.
La seconda chiesa narrava del ‘prima’ crocifissione (Ultima Cena), la terza del ‘dopo’ (Cristo che, risorto, appare in Galilea sulle sponde del lago di Tiberiade e si fa cuocere due pesci per convincere i discepoli che era proprio in carne ed ossa e non un fantasma).
Tranne la prima chiesa descritta - che poi è un oratorio - la questione ‘morte’ era stata più o meno elegantemente bypassata: un incidente di percorso che - siccome è cosa scandalosa - meglio ignorare.
Molto meglio invece inneggiare - con la solita retorica da pochi spiccioli - all’ amicizia, intesa come trovarsi tutti assieme a tavola, mangiando e bevendo (questo è in sostanza il senso dato oggi alla celebrazione eucaristica, nulla più) oppure sollecitare il meraviglioso di un (ex) morto che passeggia lungo il mare e si ferma - di nuovo - per una bella mangiata, in compagnia.
La sensibilità dei contemporanei - regolarmente nutrita di horror attraverso film di illimitata violenza o di immagini di guerre anche pochissimo distanti, dove distruzione e morte troneggiano su tutto - non potrebbe (secondo questi parroci e sacerdoti) reggere la vista di un Cristo morto.
Ci ricorderebbe - a differenza delle immagini sterilizzate dalla distanza imposta dallo schermo - che la fine di tutto, di noi stessi, è una possibilità concreta, presente accanto a noi, in noi, ogni giorno della nostra vita.
Ci ricorderebbe soprattutto che questo Gesù, tanto gentile e accondiscendente, trascinato nei nostri discorsi buonisti ovunque e come tappo per le falle di tutto, in realtà, non ha accondisceso poi così tanto. Infatti, per difendere la verità - parola tanto fuori moda - ci ha lasciato decisamente la pelle.
Mi fa sorridere, se non facesse piangere, la spiegazione di una guida (cristiana) al santo Sepolcro di Gerusalemme che si premurava di rassicurarci che “oggi il Santo Sepolcro si chiama piuttosto ’basilica della resurrezione’, per non spiazzare troppo chi crede”…
Un politically correct che - a me personalmente - fa rabbrividire: ma quello è un sepolcro, sì o no?
Lì si mettevano i morti, sì o no?
In realtà, forse, semplicemente, se i nostri animi ‘sensibili’ dovessero essere feriti dalle brutture di una morte, per di più di uno che era Figlio di Dio ed era venuto a salvarci, si innescherebbe - chissà? - un piccolo meccanismo che farebbe spudoratamente domandare: “Perché”?
Ed ecco che allora, tutti i nostri sacerdoti e parroci così bravi a sollecitare mangiate e allegre brigate, dentro e fuori le celebrazioni, dovrebbero domandarsi, a loro volta: E io, perché faccio quello che faccio”?
E così - vedi un po’- toccherebbe mettersi a studiare cosa diamine sia successo quel venerdì di duemila anni fa, e da lì in poi e perché quella terribile agonia ci interroga ancora ancora oggi, tutti quanti, nessuno escluso.
Insomma, il cristianesimo, la nostra fede, scoprirebbe di essere un vero scandalo.
Esattamente come lo fu allora.
Perché Cristo, infine, è proprio morto.
Solo per questo è veramente risorto.
“Dunque, non vergogna, ma fiducia sconfinata e vanto immenso nella morte del Cristo. Prese su di sé la morte che trovò in noi e così assicurò quella vita che da noi non può venire”
(dai Discorsi, S. Agostino vescovo)