"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

La cosa che mi aveva colpito, quando il volume mi giunse tra le mani, fu la dedica autografa dell’autore - Giorgio Papasogli - ad una amica.
La data è Natale del 1957. Quell’anno, l’anno della mia nascita. Quel Natale, il mio primo Natale su questa terra.
Quando, al pensare allo scorrere dei miei anni e al tempo che fugge inesorabile, mi assale un po’ di tristezza, vado a rileggermi queste righe piene di realismo, ma anche di tanta speranza.
Meditando sul volo dal sesto piano del rettore della Cattolica che due giorni fa, decise di togliersi la vita, rivedendo la mia antica Università passare nei sevizi TV come luogo di cronaca nera - luogo, invece, per me di studi tanto faticosi, ma anche di tante belle avventure di gioventù e riflettendo sulla ennesima domenica pomeriggio che mi sta lasciando, oggi è uno di quei giorni.

“Ecco, la vita era passata per la maggior parte e quasi tutto il frutto era stato dato.
Che avrebbe potuto aggiungere lei, che ormai si trovava alla soglia della vecchiaia, e aveva già tanti capelli bianchi?
A momenti, le veniva voglia di scendere nel prato rilucente di guazza, e camminare a lungo, così, con gli occhi pieni della mite luce notturna.
L’estate era tiepida e fragrante sotto la mezzanotte, e gli usignoli cantavano ancora.
Elvira si sentiva nascere dentro una domanda che la disturbava e l’affascinava al tempo stesso:
Mi vogliono bene ancora? MI vogliono ancora bene come prima?
Tentava di rispondere a sé stessa: i figli le volevano bene ‘quanto’ prima: in un modo diverso, magari, ma non minore.
E poi… poi… la strada è lunga, qualcuno di loro, domani, avrebbe potuto sentire il bisogno di lei. Chi sa se tutto pe loro sarebbe stato liscio, brillante, felice?
Chi sa se qualcuno non sarebbe tornato con le lacrime agli occhi e l’espressione impacciata per dire: Mamma…
Ma un particolare rivelazione di sé stessa e della propria vita, le parve le fosse concessa un giorno d’autunno del 1885.
Era rimasta da sola in campagna per mettere in ordine la casa, a stagione ultimata. I figli erano rientrati a Livorno, il marito era con loro.
Pareva a lei che lo scopo stesso della sua vita, giunta ai sessant’anni, fosse intrinsecamente mutato, e cambiava d’aspetto.
Era la sua maternità in sé che metteva i capelli bianchi, trasferendosi in aspetti nuovi, quasi inattesi.
Ottobre era alla fine, e pioveva trina lieve sul giardino immobile. Nel grigiore luccicante di umidità si attenuavano le linee dei lecci, dei cedri, dei cipressi.
Qua e là le querce spandevano chiazze d’oro brunito, velate dalla nebbia leggera.
Si gettò addosso un vecchio mantello, si strinse uno scialle attorno ai capelli, ed uscì.
Camminò sul viale già coperto di foglie morte. Visto così, il giardino aveva un suo carattere limitato ed intimo, sotto un cielo che lo rendeva simile ad una grande stanza amica.
Lei si sentiva all’unisono con ciò che la circondava e che diveniva quasi un ‘immagine di quanto accadeva in lei.
Anche il suo autunno era inoltrato, anche nella sua anima si stendevano trine di pioggia: ma tutto era riposato e modesto.
Era vero che la forza di vivere maturava in oro come le foglie delle querce: nel medesimo oro brunito privo di riflessi.
Come era vero che in lei esisteva ancora un o splendore di fronde che l’inverno non avrebbe smorzato.
Soprattutto era vero che in lei agiva una forza non semplice e determinante come nella natura, ma complessa a tutta spirituale: la facoltà di liberarsi, a poco a poco, dei propri rami morti, delle proprie foglie spente.
Liberare sé da sé stessa, lentamente, in silenzio.
Ripensava alle piccole e grandi contrarietà che l’angustiavano nella vita familiare: incomprensioni degli altri, bronci segreti, egoismi propri ed egoismi loro. Esili rami che dovevano morire e cadere, foglie inutili.
Si tutto ciò doveva maturare in oro e macerarsi, poi, nella grande dolce umiliazione autunnale.
Mentre camminava sulle foglie che tappezzavano il viale, intrise di pioggia, e prossime a dissolversi, il suo pensiero si fece leggero: morendo, le cose alimentano la terra buona.
Tutto era ordine attorno a lei, ordine posto dal Signore.
In lei, come persona, questo ordine donato diventava splendida e paziente azione della grazia: lei poteva rispondere con l’amore e la volontà.
Aiutando ad attuarsi la graduale spoliazione di se medesima: purificarsi nel soffio onnipotente di Dio”.

(immagine: Peder Severin Krøyer - Summer evening at the South Beach, Skagen)