"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

Alla stessa ora, il venerdì precedente, ne avevo seguita un’altra, appunto nella nostra lingua nazionale e, sorvolando sulla coppia di vicini in tenuta da palestra, che periodicamente alzavano le braccia per passare in rassegna l’entità delle emanazioni ascellari, tutto sembrava essere avvenuto nella maniera più ordinaria.
Anzi, forse proprio annusarsi le ascelle in pubblico - e durante una messa - va considerato come ordinario, al giorno d’oggi.
Però il giorno successivo, poco prima dell’inizio di questa messa delle h.11 nel loro idioma, gli italiani sono stati invitati cortesemente a lasciare liberi i posti e ad andare ad accomodarsi, per il loro rito, nel capannone giallo, a cento metri di distanza, che prende il pomposo nome di salone Giovanni Paolo II.
Non avendo la minima intenzione di alzarmi e procedere ad un ennesimo spostamento, in considerazione del continuo deambulare da un sito ‘significativo’ all’altro che si effettua a Medjugorje, sono rimasta ancorata alla mia panca, certa che - se anche l’avessero celebrata in samoano anziché in italiano - la messa valeva comunque.
E così ho assistito alla celebrazione di un Battesimo.
Veniva conferito all’interno di una messa, che essendo destinata agli abitanti locali, era celebrata in croato.
La piccola Kiara giaceva serena ed ingenua nelle braccia della mamma, poi della madrina, poi del papà, tutti e tre strettamente seduti dinnanzi all’altare, tanto che chi proveniva dal fondo poteva immaginare si stesse celebrando un matrimonio trigamico.
Stavo attenta, ovvio, ma, altrettanto ovviamente, non capendo nulla di quel che si diceva, lo sguardo vagava alquanto all’intorno.
Stavolta, nessuno che si annusava le ascelle al mio fianco, ma, subito dinnanzi a me, un gruppetto di semi naziskin dal cranio rasato, i capelli risparmiati colorati suggestivamente di violetto e rossastro.
La mise (t-shirt e pantaloni con catena), rigorosamente nera.
Erano amici dei festeggiatissimi genitori, in mise invece rigorosamente bianca e - per quanto riguarda le due signore - dai capelli lunghi e a boccoloni, biondi una, neri l’altra.
Il resto degli astanti si poteva definire di stile medio-beautiful.
Tornata a casa da qualche giorno, poco prima di assistere online all’apparizione quotidiana della Madonna alla veggente Marja che da Domenica 16 giugno invita ad una Novena in onore della Madre di Dio centinaia di persone provenienti da mezzo mondo come è fantastico vedere dalle 22 alle 24 disciplinatamente accoccolate sui pietroni inospitali del Podbro, accanto a attorno a lei, due sere fa sentivo Padre Fanzaga deplorare che al di sotto del luogo dove la Madre di Dio si manifesta, svariati abitanti del luogo, incuranti della sacralità del loro sobborgo collinare, sfrecciano come niente fosse a bordo delle loro auto in un senso come nell’altro e per di più alle 11 di sera… Cosa mai potevano avere da fare a quell’ora - si domandava il padre - e in quel remoto angolo di mondo?
Queste riflessioni le metto in fila qua adesso perché sono un po’ il compendio di quanto un cristiano si trova ad affrontare quando la posta in gioco è la fede.
La fede intesa come risposta ad una provocazione, che ci provenga da un mondo altro rispetto al nostro.
Il padre Fanzaga asserisce che il problema è l’aver ormai raggiunto la ‘terza generazione’, rispetto alla novità stupefacente dell’irruzione mariana nella vita di quei sei ragazzetti bosniaci e di tutti noi, apparizioni iniziate appunto ormai circa tre generazioni fa.
In sostanza, secondo lui, quello scalpore, quello stupore ammirato, quella spinta ad avventurarsi verso quel confine che il soprannaturale aveva spontaneamente varcato grazie alle preghiere di alcuni e alla Grazia divina, stanno entrando nella fase di ‘riflusso’, tipica della tendenza a rendere routine ogni cosa di noi esseri umani.
Forse, forse il padre insinua anche il leggero sospetto che la ‘questione apparizioni’ venga a turbare - con il suo protrarsi - il regolare svolgimento della vita parrocchiale.
Non sono esperta di questioni intraecclesiali, né di dogmi mariani o devozioni varie, tranne per il fatto che – sovente - mi ritrovo anch’io frammischiata con le turbe di ricercatori di grazie e benedizioni che affollano i santuari.
E così, essendo anche una che la ricerca tenta di portarla avanti tutto l’anno e, perciò, dalla Chiesa si è fatta per lungo tempo istruire sui fondamentali, soprattutto grazie a teologi come Ratzinger, una volta giunta a casa, vorrei poter tirare alcune somme riguardo il viaggio. Anzi, devo tirarle, queste somme, per mia necessità.
Innanzitutto, a Medjugorje, come per esempio a Lourdes o a Fatima, si giunge il più delle volte sospinti dall’eco dello straordinario, del misterioso, del - oserei dire - paranormale.
E infatti non si vedono propriamente persone dal capo chino, soprattutto modestamente abbigliate, in atteggiamento di domanda.
A Lourdes si vedono tantissimi malati, e questa condizione, di per sé, è già una grande forma di umiltà.
Quello che a mio avviso, per esempio a Medjugorje si vede, è essenzialmente una fame divorante: quella di trovare almeno almeno… la felicità.
Ma… essendo figli di questa epoca, risiedendo in questa terra, da cosa tutti noi mutuiamo l’idea di felicità?
Noi - in genere - arrivando in questi luoghi benedetti, siamo già tutti pieni di domande e di attese, nella maniera in cui ci veniamo.
Cosa siete andati a cercare nel deserto - diceva Cristo parlando di Giovanni il precursore?
E giù una serie di cose che secondo lui i suoi contemporanei andavano a cercare, tutto tranne quello che potevano, trovando Giovanni, trovare.
Anche ai tempi di Cristo, quando ancora telenovele, influencers o applicazioni elettroniche con relative suggestioni virtuali non esistevano, la gente partiva a vedere il ‘fenomeno’.
E partiva impostata per trovare determinate cose.
Cose che - non trovandole - erano destinate a segnare ancor più il senso di scacco e di fallimento quotidiano, per vincere il quale si era partiti.
In realtà, a Medjugorje, come in altri luoghi di apparizioni mariane, non si trova nulla di diverso da quanto una parrocchia mediamente funzionante e mediamente ben guidata dal parroco possa offrire.
Perché la Chiesa, anche laggiù, offre ‘soltanto’ una cosa: la salvezza, quella conquistata per noi da Cristo con la sua incarnazione, morte e resurrezione.
La Madonna, come una madre, e per la sua particolare condizione di essere stata assunta con un corpo già da ora, si trova a svolgere un ruolo specifico di cura e custodia che Cristo le ha affidato morendo.
E lo fa, anche apparendo quando vuole, a chi vuole.
In queste occasioni, più che il legittimo stupore, quello che deve assalirci è il desiderio di cambiare la nostra vita.
Fondamentale, quindi, arrivare in questi luoghi benedetti convinti che non sia il cranio rasato e tinteggiato a dire la verità ultima di noi.
Per non essere identico a uno sfoggio di collane o abbigliamenti griffati, non per questo, anche gli arcobaleni in testa, sono meno uno sfoggio di vanità. Vanità che chiude, anziché aprire all’Infinito.
Poi la questione, a mio sommesso avviso, è il ‘trattamento’ del sacro che in questi luoghi avviene. In particolare, mi riferisco all’ultimo in cui son stata, appunto Medjugorje.
Se, a causa del numero enorme di presenze, la Liturgia, anche quella dell’adorazione, si compie outdoor, en plein air, ovvio che stare in contemplazione dinnanzi al Santissimo non possa scindersi dalla contemplazione di fenomeni atmosferici come lo stupendo arcobaleno del giovedì 13, verso le h. 20.
Eppure, un sacerdote il giorno dopo ha approfittato dell’omelia per stigmatizzare violentemente tutti quelli - me compresa - che avevano fatto ‘ooohhh’ e, estratto lestamente il cellulare, hanno cominciato scattare foto a più non posso.
C’è qualcosa di irrispettoso in un arcobaleno?
Assolutamente nulla, tranne che - rispetto al Creatore, esposto sull’altare - esso è solo una creatura, un fenomeno naturale come tanti altri, se pur mille volte più bello di tanti altri.
La domanda è, se sia comunque il caso - concessa la difficoltà di contenere tanta gente in luoghi chiusi - celebrare fuori da perimetri precisi che, anziché ridurre separando i convenuti dall’esterno, un tempo erano stati concepiti proprio per tutelare il sacro in quanto tale.
Da sempre, l’uomo, nel gestire il suo rapporto con la divinità - dai tempi della pietra - ha delimitato degli spazi che - anzi proprio per questo - pur separando se stesso dalla routine quotidiana, lo ‘salvassero’ dalla superficialità e dalla banalità, dalla distrazione.
In questo senso io considero un valido ‘perimetro’ - se pure non di mattoni e cemento - proprio il ‘rito’ e le sue forme convenute per celebrazioni e preghiere, sacramenti e sacramentali.
Se un formalismo tende a comprimere il contenuto, allora ignorare ogni ‘forma’ tende proprio a farlo svaporare.
Il rito con la sua ‘forma’ impedisce di invadere con la nostra ‘creatività’ la dimensione in cui Dio è Lui a dover prendere l’iniziativa.
L’intrattenimento’ come mezzo per ‘avvicinare’ i fedeli, in realtà allontana molto di più.
Mi permetto anche questa riflessione: durante la recita del Rosario al Podbrdo, pur apprezzando l’intento di far sentire ciascuno - da qualunque angolo di mondo provenga - unito a tutti gli altri fratelli, l’uso della lingua nazionale trasforma in una Babele incredibile il coro di risposta a chi guida.
Se, chi guida la recita della decina, usa una lingua, la sua, il coro di risposta è poi un sovrapporsi scoordinato di idiomi i più disparati, la qual cosa, invece che generare un senso di unità - ripeto, a mio parere - genera un senso di confusione e di distanza reciproca enorme.
Una babele, appunto.
So benissimo che l’intenzione non è quella.
Quando il vescovo ucraino, che si vedeva veramente commosso ai piedi della Madonna per invocare la pace portando il dolore del suo popolo, poi - su invito di Marja - dava nei primi giorni della Novena, la benedizione, non a caso la dava in latino.
Il latino unisce tutti, di qualunque etnia noi si sia. È la lingua ufficiale della Chiesa.
In questa lingua, unica società di questo genere, la Chiesa si ritrova una e unita, da qualunque latitudine la si guardi. Se non tutti sanno il latino, si può trovare sul cellulare on line o imparare (che tanto son sempre le stesse parole) la versione del Pater e dell’Ave scritta in questa lingua.
Darebbe un’idea della nostra unità di figli dell’unico Dio molto forte (sempre secondo me).
Chiudo tornando a volo a quanto dicevo all’inizio: non so se è dovuto al logorio dello scorrere del tempo, che ci ha portato ormai alla ‘terza generazione’, come diceva Don Livio, l’affievolirsi della devozione a Medjugorje, o se ci siano diatribe intra ecclesiali, fatto sta che il ‘mondo’ c’è, ed è forte e spadroneggia tutto intorno a noi e dentro di noi.
Cominciando nel manipolare quell’idea di ‘felicità’ che ci porta laggiù a cercare ‘Qualcosa’ per le nostre vite.
C’è una preghiera del cuore, diceva - sulla scorta di san Paolo - Ratzinger, ma c’è anche una preghiera dell’intelligenza.
La preghiera è un evento della parola del quale partecipano lo spirito e la ragione: rationabile obsequium!
Moltiplicare le Ave Maria non basta a un cambio ‘in automatico’ della nostra mentalità, così corrosa da ciò che in essa il mondo con il suo delirio continua a mettere in atto indefessamente, modificando i nostri desideri, le nostre fantasie, il nostro senso della bellezza, le nostre aspirazioni, anche le migliori.
Sarebbe bello offrire a coloro che si rivolgono a Maria santissima, oltre al Rosario - che resta la cosa fondamentale - una spinta a giudicare le cose e gli avvenimenti per poi cambiarli.
Permettere che la preghiera ci apra a quella vera e propria antropologia cristiana che dalla fede in un Dio Creatore e Padre deriva.
Cristo non è venuto per farci sopravvivere semplicemente al presente, ma per giudicarlo e, così, instaurare omnia in Christo.