"Ed ecco la mia vita
Giunta sino all’orlo
Come un vaso d’alabastro
Infrango innanzi a Te
"

Boris Pasternák

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Intervento del Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin durante l’incontro con i vertici del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa del 14 /6/2024

“Le città ucraine sono state investite da un’ondata di disordini, violenze e uccisioni. Del potere, a Kiev, ormai si erano definitivamente impadroniti gli usurpatori radicali. I loro aggressivi slogan nazionalisti, assieme alla riabilitazione da parte loro delle figure dei collaborazionisti nazisti, furono innalzati a ideologia nazionale. Con la proclamazione delle loro politiche di abolizione della lingua russa in ambito pubblico e statale, aumentarono anche le pressioni ai danni dei fedeli ortodossi e l’ingerenza negli affari della Chiesa, cosa che, alla fine, portò a una spaccatura al suo interno. Sembra che nessuno faccia mai caso a simili ingerenze, quasi come se fossero la cosa giusta da fare. Ma provate a fare qualcosa di simile da qualche altra parte: vi sentirete fischiare contro talmente tanto che vi cadranno le orecchie. Ma lì, invece, questo è concesso, perché ciò che si fa è a danno della Russia.
Milioni di abitanti dell’Ucraina, prime tra tutte le regioni orientali, si opposero al colpo di Stato, come è noto. Ma cominciarono a minacciarli con atti di rappresaglia e di terrorismo. E, per prima cosa, i nuovi vertici del potere di Kiev iniziarono a preparare un attacco alla Crimea, regione russofona, la quale a suo tempo, come sapete, e cioè nel 1954, fu trasferita dalla Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa all’Ucraina in piena violazione di tutte le norme e delle procedure di legge, addirittura anche di quella allora in vigore in Unione Sovietica. In quella situazione, naturalmente, noi non avremmo mai potuto abbandonare i cittadini della Crimea e di Sebastopoli, lasciandoli soli senza alcuna protezione. Loro fecero la loro scelta, e, nel marzo del 2014, come sappiamo, ebbe luogo lo storico ricongiungimento della Crimea e di Sebastopoli con la Russia.

A Kharkov, a Kherson, a Odessa, Zaporozhye, Donetsk, Lugansk e a Mariupol, le manifestazioni pacifiche di protesta contro il colpo di stato iniziarono a essere oggetto di repressione, e il regime di Kiev, assieme ai gruppi di nazionalisti radicali, scatenò il terrore. Non dovrebbe essere necessario ricordarlo, perché rammentiamo tutti molto bene cosa accadde in quelle regioni.

Nel maggio del 2014, ebbero luogo i referendum relativi allo status territoriale delle Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk, nel corso dei quali la maggioranza assoluta dei cittadini si pronunciò a favore dell’indipendenza e dell’autonomia delle proprie regioni. Viene subito da porsi una domanda: quelle persone avevano veramente il diritto di esprimere in questo modo la loro volontà, e di dichiarare la loro indipendenza? Coloro che siedono in questa sala sanno bene che, naturalmente, potevano farlo, che ne avevano piena ragione e diritto, tra l’altro in conformità con il diritto internazionale, e nello specifico con il principio riguardante il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Non serve ricordarvelo, ma in ogni caso, dato che sono presenti i media, lo ribadirò: tale diritto è garantito dall’Articolo 1, Paragrafo 2 della Carta delle Nazioni Unite.

Vorrei ricordare, a questo proposito, il noto precedente del Kosovo. Ne abbiamo già parlato tante volte a suo tempo, ma lo ripeterò ancora. Si tratta di un precedente creato dai Paesi occidentali stessi, nell’ambito del quale però, in una situazione del tutto analoga [a quella delle Repubbliche Popolari autoproclamatesi indipendenti nel 2014], la separazione del Kosovo dalla Serbia avvenuta nel 2008 fu riconosciuta come pienamente legittima. Poi, fece seguito la nota sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU, che il 22 luglio del 2010, in base all’Articolo 1, Paragrafo 2 della Carta delle Nazioni Unite, stabilì, e cito: “Nessun tipo di divieto generale in merito a una proclamazione unilaterale di indipendenza può scaturire dalla prassi del Consiglio di Sicurezza”. E, di nuovo, cito: “Il diritto internazionale comune non prevede alcun tipo di divieto che sia applicabile a una proclamazione di indipendenza”. Inoltre, nella sentenza si stabiliva altresì che le regioni di un Paese, qualunque esso fosse, che avessero deciso di dichiarare la propria indipendenza, per farlo non avrebbero avuto l’obbligo di rivolgersi agli organi centrali dello Stato al quale appartenevano in precedenza. È tutto scritto lì, hanno messo tutto nero su bianco di loro pugno.

Quindi, avevano o no queste repubbliche, e cioè la Repubblica Popolare di Donetsk e la Repubblica Popolare di Lugansk [il diritto] di proclamare la propria indipendenza? Certo che sì. Non è possibile vedere la questione in nessun altro modo.
​E che cosa ha fatto il regime di Kiev in quella situazione? Ha completamente ignorato la scelta che quelle persone avevano fatto, ed ha scatenato una vera e propria guerra contro quelle nuove regioni indipendenti, contro le nuove Repubbliche Popolari situate nel Donbass, facendo uso di mezzi d’aviazione, di artiglieria e di carri armati. Ebbero inizio i bombardamenti e gli attacchi missilistici ai danni di pacifici centri urbani, come anche gli atti intimidatori. E poi, che cosa è successo? Gli abitanti del Donbass hanno preso in mano le armi per difendere la propria vita, la famiglia, la casa e i propri legittimi interessi.

Al momento, in Occidente si promuove la tesi secondo cui sarebbe stata la Russia a dare inizio al conflitto nel contesto dell’Operazione Militare Speciale, e che è la Russia il vero aggressore; e questo giustificherebbe, tra le altre cose, la possibilità di condurre attacchi sul suo territorio facendo uso degli armamenti forniti dall’Occidente, perché, a detta di quest’ultimo, l’Ucraina si starebbe solo difendendo, e quindi sarebbe autorizzata a farlo.

Voglio sottolinearlo ancora una volta: non è stata la Russia a dare inizio al conflitto. Lo ripeto: è stato il regime di Kiev che, a seguito della proclamazione di indipendenza giunta dagli abitanti di una parte dell’Ucraina, peraltro in conformità con il diritto internazionale, ha dato inizio alle ostilità, e tuttora sta continuando su questa strada. Si tratta a tutti gli effetti di aggressione se non viene riconosciuto il diritto delle popolazioni che risiedono in quei territori a proclamare la propria indipendenza. Ma come? E allora che cos’è questa [condotta da parte dell’Ucraina]? È un’aggressione. E coloro che in tutti questi anni hanno fornito il loro contributo al funzionamento della macchina bellica del regime di Kiev, sono complici dell’aggressore.

All’epoca, nel 2014, gli abitanti del Donbass non si dettero per vinti. Facevano resistenza ai drappelli di miliziani, respingevano i militari in spedizione punitiva, fino anche a riuscire a respingerli da Donetsk e da Lugansk. Contavamo sul fatto che ciò sarebbe servito a far rinsavire coloro che avevano scatenato il massacro. Per fermare gli spargimenti di sangue, la Russia lanciò gli appelli che si è soliti fare in questi casi, appelli ai negoziati, che quindi ebbero inizio con la partecipazione di Kiev e dei rappresentanti delle Repubbliche del Donbass, coadiuvati da Russia, Germania e Francia.

I negoziati procedevano con difficoltà, ma comunque, a conclusione delle trattative, nel 2015 furono siglati gli Accordi di Minsk. Noi ci approcciammo con la massima serietà all’adempimento di tali accordi, nella speranza che saremmo riusciti a giungere a una risoluzione del conflitto per mezzo di un processo di pace ed entro l’ambito del diritto internazionale. Contavamo sul fatto che ciò avrebbe portato a tenere in considerazione gli interessi legittimi e le rivendicazioni del Donbass, e quindi al riconoscimento all’interno della Costituzione dello status particolare di queste regioni, nonché dei diritti fondamentali di coloro che vi risiedevano, pur preservando l’unità territoriale dell’Ucraina. Noi eravamo disposti a questo, ed eravamo pronti a convincere le persone residenti in quei territori a procedere alla risoluzione dei problemi proprio in quel modo; e più di una volta ci siamo trovati a proporre compromessi o possibili punti di incontro.

Ma, alla fine, hanno rifiutato tutto. Kiev ha semplicemente preso gli Accordi di Minsk e li ha gettati nella spazzatura. Come in seguito, sbottonandosi, hanno rivelato i rappresentanti dei vertici di Kiev, neanche uno degli articoli che erano parte di questi Accordi li soddisfaceva. Avevano soltanto mentito, tergiversando come potevano.

Anche l’ex Cancelliere tedesco e l’ex Presidente francese, che di fatto erano stati coautori, e quindi anche garanti degli Accordi di Minsk, più tardi a un tratto ammisero, senza mezzi termini, che in realtà non avevano davvero intenzione di adempiere a tali accordi; a loro erano serviti soltanto per “parlare un po’ della situazione”, così da guadagnare tempo utile per costituire le formazioni militari ucraine e per poterle dotare di armi ed equipaggiamento tecnico in quantità. Ci avevano semplicemente imbrogliato, ci avevano ingannato per l’ennesima volta.

Invece di condurre un reale processo di pace, invece di scegliere una politica di reintegrazione e di riconciliazione nazionale, questioni delle quali amavano pontificare da Kiev, hanno bombardato il Donbass per otto anni. Hanno organizzato attentati terroristici, uccisioni, hanno messo in piedi un durissimo assedio ai danni della regione. Per tutti questi anni, i cittadini del Donbass, donne, bambini, anziani, sono stati definiti esseri di serie B, subumani, sono stati minacciati per mezzo di rappresaglie, veniva detto loro “adesso arriviamo e la facciamo pagare a ciascuno di voi”. Cos’è questo, se non genocidio in atto nel cuore dell’Europa del XXI secolo? Nel frattempo però, in Europa e negli USA fingevano che non stesse succedendo niente, che nessuno si fosse accorto di niente.

Tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, il processo negoziale di Minsk fu definitivamente sepolto, e tra l’altro fu sepolto da Kiev e dai suoi protettori occidentali, mentre di nuovo si pianificava un altro, massiccio attacco ai danni del Donbass. Un imponente raggruppamento delle Forze Armate Ucraine si preparava a dare inizio a una nuova offensiva ai danni delle regioni di Donetsk e Lugansk, che avrebbe previsto atti di pulizia etnica e avrebbe portato a enormi perdite umane, nonché alla fuga di centinaia di migliaia di rifugiati. Noi abbiamo dovuto prevenire una simile catastrofe, abbiamo dovuto difendere queste persone. Non avremmo potuto decidere diversamente.

La Russia, finalmente, riconobbe le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk. Per 8 lunghi anni non abbiamo proceduto al loro riconoscimento perché, dopotutto, contavamo sul fatto che saremmo giunti a degli accordi su tutta la linea. Le conseguenze di tutto ciò ormai le conosciamo tutti. Il 21 febbraio del 2022, con queste Repubbliche, che ormai avevamo riconosciuto, siglammo degli accordi di amicizia, [cooperazione] e mutua assistenza. Domanda: le Repubbliche Popolari avevano o no il diritto di rivolgersi a noi chiedendo supporto, visto che noi avevamo riconosciuto la loro indipendenza? E noi, avevamo o no il diritto di riconoscere la loro indipendenza, allo stesso modo in cui loro avevano il diritto di proclamare la propria autonomia in conformità con gli Articoli e le Sentenze emanati dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU, da me citati in precedenza? Avevano o no il diritto di proclamare la loro indipendenza? Sì, ce l’avevano. Ma se avevano questo diritto, e se lo hanno esercitato, allora anche noi avevamo il diritto di siglare con loro un accordo; e questo abbiamo fatto. Tra l’altro, ripeto, operando nel pieno rispetto del diritto internazionale e dell’Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite.

Allo stesso tempo, noi rivolgemmo un appello alle autorità di Kiev perché ritirassero le loro truppe dal Donbass. Vi posso dire che ci sono stati dei contatti, e che noi abbiamo subito detto loro: portate via di lì i vostri soldati, e finiamola qui. Questa proposta fu immediatamente respinta, anzi direi semplicemente ignorata, sebbene essa rappresentasse una reale possibilità di chiudere la questione proprio ricorrendo a vie pacifiche.

Il 24 febbraio del 2022, la Russia fu costretta ad annunciare l’inizio dell’Operazione Militare Speciale. Nel rivolgermi ai cittadini russi, agli abitanti delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk e all’opinione pubblica ucraina, in quel frangente misi bene in chiaro quali fossero gli obiettivi di questa operazione: difendere la popolazione del Donbass, ripristinare la pace, provvedere alla demilitarizzazione e alla denazificazione dell’Ucraina e, allo stesso tempo, respingere le minacce dirette al nostro Paese e ristabilire un equilibrio per la sicurezza in Europa.

Nel frattempo, noi continuavamo a considerare prioritario il raggiungimento di tali obiettivi con mezzi politici e diplomatici. Voglio ricordare che già nelle primissime fasi dell’Operazione Militare Speciale, il nostro Paese svolse dei negoziati con i rappresentanti del regime di Kiev. Tali negoziati si svolsero inizialmente in Bielorussia e in Turchia. Cercammo di trasmettere quello che era il nostro pensiero principale: rispettate la scelta del Donbass, la volontà di coloro che vivono lì, ritirate le truppe, fermate gli attacchi ai danni di città e centri abitati, non serve nient’altro; le restanti questioni le risolveremo più avanti. In risposta giunse un “no, noi combatteremo”. Evidentemente, era stato proprio quello l’ordine ricevuto dai padroni occidentali, e adesso mi esprimerò anche su questo.

In quel periodo, tra il febbraio e il marzo del 2022, le nostre truppe, come sappiamo, procedettero verso Kiev. A questo proposito sia in Ucraina che in Occidente, allora come adesso, sono state fatte molte speculazioni.

Che cosa voglio dire in merito? Le nostre formazioni si trovavano effettivamente nei pressi di Kiev; i nostri dipartimenti militari e lo Stato Maggiore avevano diverse proposte in merito alle possibili opzioni per le nostre mosse successive, ma non era prevista alcuna decisione politica che implicasse un assalto ai danni di una città di tre milioni di abitanti, e questo a prescindere da che cosa qualcuno abbia immaginato o pensato.

In sostanza, la nostra non fu nient’altro che un’operazione atta a forzare il regime di Kiev alla pace. Le truppe si trovavano lì per spingere la parte ucraina alle trattative, per cercare di trovare delle soluzioni accettabili e, con queste, porre fine alla guerra scatenata da Kiev contro il Donbass già nel 2014; e risolvere quelle questioni che rappresentavano una minaccia per la sicurezza del nostro Paese, per la sicurezza della Russia.

Per quanto strano possa sembrare, la conseguenza di ciò fu che si riuscì davvero ad arrivare a degli accordi che, in linea di principio, erano soddisfacenti sia per Mosca che per Kiev. Tali accordi furono messi per iscritto e siglati a Istanbul dal Capo della delegazione negoziale ucraina. Quindi, evidentemente alle autorità di Kiev stavano bene le condizioni previste da tale proposta di risoluzione della crisi.

Il documento si chiamava “Trattato sulla neutralità permanente e le garanzie di sicurezza per l’Ucraina”. Tale accordo aveva carattere di compromesso, ma i suoi punti cruciali erano in linea con le nostre esigenze fondamentali, poiché risolvevano quelle che erano state dichiarate come le principali problematiche già al momento dell’inizio dell’Operazione Militare Speciale. E, in particolare, per quanto strano possa sembrare, anche in merito alla questione della demilitarizzazione e della denazificazione dell’Ucraina, ed è lì che voglio richiamare la vostra attenzione. Perché anche su questo aspetto riuscimmo a trovare dei punti di incontro, seppure di una certa complessità. Sì, erano compromessi difficili, ma li avevamo individuati. E, per la precisione: si intendeva approvare una legge in Ucraina sul divieto all’ideologia nazista, in tutte le sue manifestazioni. Negli accordi c’è scritto tutto.

Inoltre, l’Ucraina, in cambio delle garanzie di sicurezza internazionale, avrebbe posto un limite alle dimensioni delle sue forze armate, si assumeva l’obbligo di non aderire ad alleanze militari, di non permettere che sul suo territorio venissero collocate basi militari straniere oppure che venissero schierati lì i relativi contingenti militari, e si impegnava a non condurre esercitazioni militari sul suo territorio. È tutto scritto sulle carte.

Noi, da parte nostra, comprendendo pure la preoccupazione dell’Ucraina legata alla sua sicurezza, acconsentimmo acché l’Ucraina, pur senza aderire formalmente alla NATO, potesse comunque godere di garanzie praticamente analoghe a quelle applicate ai Paesi membri di questa alleanza. Per noi si trattò di una decisione non semplice, ma riconoscevamo la legittimità delle richieste avanzate dall’Ucraina in merito al fatto che la sua sicurezza venisse garantita; e quind essenzialmente non facemmo obiezioni alle formule proposte da Kiev. Si trattava delle formule proposte da Kiev, e noi in generale non obiettammo, perché comprendevamo che la cosa più importante era fermare gli spargimenti di sangue e il conflitto in corso nel Donbass.
​Il 29 marzo del 2022, ritirammo le nostre truppe da Kiev in quanto ci assicurarono che era necessario: bisognava creare le condizioni affinché il processo politico dei negoziati potesse concludersi, affinché si potesse portare a termine questo processo. E che, come dissero i nostri colleghi occidentali, la controparte non poteva firmare tali accordi con una pistola puntata alla tempia. Bene, noi acconsentimmo anche a questo.

Tuttavia, il giorno immediatamente successivo al ritiro delle truppe russe da Kiev, i vertici ucraini sospesero la loro partecipazione al processo negoziale dopo aver inscenato i famosi atti di provocazione di Bucha, e si rifiutarono di accettare la versione degli accordi per come era stata preparata. Credo che oggi sia chiaro a che cosa sia servita quella sporca provocazione: per giustificare in qualche modo il loro rifiuto dei risultati raggiunti nel corso dei negoziati. La via per la pace, ancora una volta, fu respinta.

Tutto questo fu fatto, come adesso sappiamo, su istruzione ricevuta dai curatori occidentali di Kiev, incluso l’ex Primo ministro britannico. Nel corso della sua visita a Kiev, fu detto apertamente che non ci sarebbe stato nessun tipo di accordo, che la Russia doveva essere sconfitta sul campo di battaglia, e che si sarebbe dovuti arrivare a infliggerle una sconfitta strategica. E così, continuarono con gran vigore a rifornire l’Ucraina di armamenti in quantità, e iniziarono appunto a parlare della necessità di doverci infliggere, come ho appena ricordato, una sconfitta strategica. Trascorso ancora qualche tempo, come sappiamo tutti molto bene, il Presidente dell’Ucraina emanò un decreto con il quale vietava ai suoi rappresentanti e addirittura a se stesso di condurre un qualsiasi negoziato con Mosca. Ecco che questo nostro nuovo tentativo di risolvere il problema con mezzi pacifici si concludeva ancora con un nulla di fatto”.