Mi riferisco esattamente a chi si definisce cristiano, perché in questa sede è questo che mi interessa.
Chi - come me - si considera cristiano, cioè persona che non solo ha ricevuto il Battesimo, in un tempo più o meno remoto, da questo sacramento ritiene derivi a lui/lei stesso/a la fondatezza del proprio esistere.
Molte sono le strade e i percorsi attraverso cui questa ri-fondazione della propria esistenza possono storicamente svolgersi. È la fantasia dello Spirito Santo, che soffia dove vuole, quando e come vuole. Suscita carismi, intenzioni, visioni del futuro e ipotesi di scelta.
Ognuno secondo la sua personale storia e dignità.
Tuttavia, il metodo sperimentale per comprendere se il fondamento del battesimo dia o meno in noi i suoi frutti e non stia cioè producendo quello che cos’ icasticamente identifica Guardini, cioè la propria autoaffermazione personale, è il metodo - brutale anzichenò - del dolore.
Quando soffriamo, quando ci capita qualcosa fuori dell’ordinario che ci rassicura per quanto noioso esso possa essere, quando sopraggiunge un disturbo, cioè soprattutto un dolore, qui emerge se il cristiano abbia costruito - tramite le cose della fede - la propria autoaffermazione personale o meno.
Il dolore, in primis nostro, è spiazzante, ma quello altrui forse lo è ancor di più. Non esiste più amicizia, compagnoneria, ideali di lotta o altro che possa metterci al riparo dalla scabrosa sensazione di trovarci davanti ad un perdente. E il perdente sotto le apparenze dell’altro che soffre, incarna troppo il perdente che è in noi, che abbiamo sempre saputo di essere in primis noi stessi, e che tanto accuratamente - cristianamente o no - abbiamo tenuto a bada così bene, fino a che l’altro, improvvisamente non strappa, col suo dolore, il velo che ci avvolge.
L’altro, se soffre, certo non lo fa per fare un dispetto a noi, poveretto. Però tutto l’insieme di discorsi con i quali assieme a quello lì avevamo costruito un’impalcatura di protezione dal dolore e dal male, rischia di crollare davanti all’impossibilità di questo altro di venirne fuori.
Allora, se si è generosi, un tap tap di incoraggiamento sulle spalle, questo riusciamo a darlo.
Dopodiché scatta tutto un sistema di censura del ‘troppo’ fuori standard.
Una dimensione fuori standard di sofferenza che fa a pugni con la quantità accettabile di compatimento che le nostre risorse possono prevedere.
Non accade per cattiveria. Accade per paura.
Esattamente quella paura da cui il Battesimo, incorporandoci a Cristo, Salvatore del nostro limite e luce delle nostre tenebre, ci aveva liberato.
Diceva un tale sacerdote che ‘non basta un cuore per tutte le cose che lo fanno battere, per questo poi moriamo’. Prima ancora, però, di morire della morte ultima, noi moriamo continuamente ogni qual volta ci sottraiamo, per paura del dolore, dal volto sconnesso di chi soffre.
Persino se a essere sconnesso dal dolore è il volto di uno dei nostri cari, o dei nostri amici più stretti.
Il nostro cuore di semplice carne, per quel muscolo che pompa sangue e ci tiene in vita, all’atto pratico equivale a una pietra, né più né meno.
Per esso è impossibile portare un peso, guardare in faccia l’irrazionale - e il dolore lo è - se questo cuore non ci viene in qualche modo dilatato e trasformato.
Non è consequenziale al fatto di avercelo, un cuore, il saperlo usare.
La consequenzialità dell’umanità delle nostre azioni e passioni, infatti, non è frutto della logica o della pura volontà: è frutto dell’essere figli di Dio.
Per questo un cuore può perfino trovare interesse a parlare dei suoi reumatismi con la vicina di 90 anni, sola tutto il giorno.
Per questo può scoccare la scintilla di un’intelligenza non solo ‘pratica’ e pragmaticamente abituata a produrre, che faccia capire come, senza sentire di aver mai nulla da rimproverarci, abbandoniamo alla sua triste sorte, senza metterlo mai a tema, perfino nostra madre.
Per questo se non ti suicidi, nessuno pensa di dover rendersi conto di quanto potevi star male.
E, poi, se lo fai, è sicuramente il segno di quanto eri fuori di testa: quota - dolore a nostro carico, subito ridimensionata, resa ‘sostenibile’.
C’è, però, questa cosa inaudita di poter essere ‘messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce’ (Col 1, 12-20): cioè nella verità.
Quindi nella libertà.
La libertà di poter portare il dolore. Anche quello che non ci appartiene direttamente.
Tutto era racchiuso in quella cerimonia che - per quanto riguarda la maggioranza di noi - ci vedeva poppanti e semiaddormentati tra le braccia di qualcuno che ci sosteneva, noi di bianco vestiti: il nostro Battesimo.
Ma… se eravamo così piccoli, cosa ce ne poteva venire a noi, che ne sapevamo di tutto questo retroscena?
E, infatti, una cosa bella, importante, vera non basta riceverla: occorre essere aiutati ad apprezzarla.
Crescendo.
Ma ci sono tante cose da fare che urgono, premono, spingono, come si fa a mettersi a pensare e riflettere sul Battesimo?
Si fa.
Si fa a misura che si vuole vivere con verità appunto proprio le cose che urgono, spingono, premono.
Occorre dire chiaramente che, se questo non accade, dipende soprattutto da coloro che, questo sacramento, assieme agli altri sei, sono stati ordinati ad amministrarli.
E poi, dopo Guardini che ne fu maestro amatissimo, c’è Ratzinger.
Il quale dice che, ad un certo punto della storia, le cose della fede, nella Chiesa stessa, si è cominciato a farle pur non essendone più convinti. Non essendo convinti davvero del loro senso.
Storicamente si parte dalla disputa sulla transustanziazione - parola demodé, raramente proferita - in cui si vuole difendere una presenza reale nelle sacre specie senza, però, credere che la fede possa essere elaborata mediante il pensiero razionale.
Non che la transustanziazione sia un concetto immediato e di cui si possa dare ragione secondo metodologie da scienza sperimentale, ma, certo, ha una sua ragionevolezza.
Iniziava la ‘partita doppia’: il pensiero prendeva la sua strada indipendentemente dalla fede, mentre le formule della teologia venivano conservate in modo esteriore, cercando di non rifiutarle, sebbene - per i più - divenute intrinsecamente contraddittorie e prive di senso.
Questa ‘partita doppia’ dice Ratzinger, “era caratteristica di quella fragilità interiore verso la quale il quadro globale della Chiesa sarebbe scivolata sempre di più”
Quella fragilità , a causa della quale, girarsi dall’altra parte sarebbe diventato sempre più la normalità.