Questi giorni che passano così rapidi
“In questi giorni, che passano così rapidi, noi decidiamo della nostra esistenza eterna”.
Così Romano Guardini, nella sua Omelia “Rivelazione e nascondimento”.
La cosa che, in fondo, a Guardini urgeva comunicare, era l’invito a non nascondersi(/ci) nella vertiginosa predisposizione all’abisso, comune ad ognuno.
Abisso che un tempo, attraverso alcune icastiche immagini (alcune gioielli di arte pura) terrorizzava i nostri antenati da sopra i portali da cui dovevano per forza passare per uscire a fine messa, grazie alla rappresentazione di dannati sottoposti ai più trucidi tormenti.
Erano le raffigurazioni del Giudizio Ultimo.
La controfacciata delle chiese anticamente privilegiava questo tipo di ammonimento post-sermone, nel caso alcune sottolineature puramente verbali del predicatore fossero sfuggite durante l’omelia.
Impossibile negare che quelle immagini diano un’efficace idea di cosa possa essere l’abisso e la perdizione.
Ma soprattutto il dispiegamento di colori, figure, oggetti, emozioni caricati ad oltranza, tradisce quasi l’idea che, poi -dopotutto- il male così grottescamente e vivamente reso non potrà essere vero fino in fondo…
Talora -quelle immagini- a me sembra, vogliono quasi pietosamente proteggerci dall’orrore dell’abisso vero.
Perché l’abisso della nostra perdizione è il monocolore del vuoto a cui abbiamo detto sì.
Dell’assenza di cose a cui abbiamo impudicamente accondisceso.
L’abisso vero, irrapresentabile, è là dove -dice Guardini- l’uomo lavorerà e toccherà con mano che nessuna impresa sa tacitare le esigenze del suo cuore.
E’ là dove, venuta meno la vigilanza del suo spirito, prenderà le possibilità per verità e i puri desideri per realtà.
“Lotterà, promuoverà iniziative, s’industrierà in ogni modo, finché riconoscerà che milioni prima di lui hanno fatto altrettanto e milioni dopo di lui faranno ancora la stessa cosa, ma sarà sempre un eterno roteare nell’arena di questa vita a plasmare per qualche ora una figura di sogno”.
Prosegue Guardini, “tutto passa. Niente di singolo giova, il mondo, come un tutto unico, va lontano dal suo destino, da Dio.”
Presumibilmente l’abisso, l’Inferno è tutto qua, particolarmente nello specchio in cui coloro che tali si definiscono, rimirando il loro essere cristiani (ma anche altri) contemplano semplicemente e poveramente null’altro che “la forma religiosa della propria autoaffermazione personale”.
Questi giorni che passano così rapidi, sottolinea Guardini, li dedichiamo a dirci cristiani, ma a seguire con lo sguardo in contemporanea, appena possibile, altri che seguono tutt’altro convincimento, o un’epoca stessa e un moto culturale che appassionati del Destino, di Cristo certamente non sono…
Per rompere l’incanto nichilista basterebbe ripetere: “Così, eppure no”.
E intestardirci, a seguire una promessa che, di sua natura, non sarebbe mai stato possibile promettere, né tantomeno realizzare.
La storia, politica, religiosa, sociale, straripa di personaggi i quali, volendo renderci più facile vivere, hanno continuato a spegnere la troppo forte luce a cui irresistibilmente volgeremmo lo sguardo.
Persino nella Chiesa, la stessa luce, una volta non più rettamente intesa, la si è pensata a modo umano, come un sentimento, magari irresistibile…
“Se nessuno ci ha mai promesso nulla, allora perché aspettiamo”? si chiedeva Cesare Pavese, ne Il mestiere di vivere.
Forse l’errore è accettare il dogma ‘natura’ e, poi, ma come un di più a cui consentire benevolmente, la Grazia.
Ma Grazia è verità: la verità oggettiva, cioè amica dell’uomo.
Tutto intorno a noi la deriva dice, invece, che questa parola non indica oltre al suo stesso suono null’altro che un’eco lontana.
Ma noi, l’essere, tutto quanto ci circonda, è Grazia.
Cioè Gloria.