Mai il popolo, ormai quasi totalmente scristianizzato, si era riempito più la bocca e la mente di un’immagine e frasi legate al Vangelo di Nostro Signore, come mentre morivamo e ci scostavamo con timore dal nostro vicino di casa, angosciati di poter finire su qualcuno di quei lugubri camion in fila indiana, parte del loro carico di morte.
Chi ha avuto la ventura di vivere gli anni ’80 e pure’90 in quel di Milano e diocesi, ricorda senz'altro come un inquietante déjà vu le 96 paginette di Siamo tutti sulla stessa barca, firmate dal cardinal Martini, gesuita, con don Luigi Verzé e piene della solita roba.
Roba che, vedi il caso, dal 2013 echeggia da più alta sede che non l’episcopato: la morale sessuale della Chiesa da buttare, i divorziati risposati da ammettere alla comunione, il celibato dei sacerdoti da mandare a ramengo, l’ottusità dell’etica cattolica da scrollarsi di dosso, e poi la sinodalità, l’apertura al mondo, il popolo di Dio che elegge direttamente i vescovi come se fossero dei borgomastri. Tutto spruzzato di snobistico orrore per “le fiumane di gente” che “quando arriva il Papa, hanno più o meno il valore delle carnevalate”.
A meno, ovviamente che non si tratti de ‘il mio Papa’ (è il titolo di una rivista, mai vista prima, ma ora sì) quello di cui media ci bombardano quotidianamente.
Il cardinale gesuita doc, con uno sparring partner come il fondatore del San Raffaele, ha buon gioco a mostrare con studiata ritrosia il suo disegno di una nuova Chiesa.
A un don Verzé, sicuro che quando Cristo tornerà sulla terra troverà ancora la fede perché ci sarà ancora il San Raffaele, risponde evocando le zone grigie dell’etica su cui ama tanto avventurarsi senza portare un solo contributo per discernere il bianco dal nero.
A un don Verzé che parla di morale cristiana incongruente col mondo confida con rammarico che, in effetti, “oggi ci sono non poche prescrizioni e norme che non sempre vengono capite dal semplice fedele”.
Oggi in mancanza di un don Verzè non mancano gli Eugenio Scalfari.
E allora via con abolizione del celibato sacerdotale e il sacerdozio femminile, le aperture su convivenze, sugli omosessuali e la comunione ai divorziati risposati, la collegialità, il conciliarismo e la contestazione del primato petrino, l’esaltazione di figure come Lutero e il fiancheggiamento dei preti cosiddetti scomodi e quindi accolti in tutti i salotti che contano.
Tutte scelte meditate e praticate come in una grande sala prove nel cantiere milanese.
Uno degli esiti più eclatanti di tale pensiero - come ricordavano in un bell’articolo del 2012, in concomitanza con la morte del cardinale, due giornalisti molto sul pezzo, Palmaro e Gnocchi - si è mostrato nella “Cattedra di non credenti”, un’intrapresa culturale che ha contribuito gagliardamente alla “devastazione dottrinale della diocesi di Milano e poi, per contagio, del resto d’Italia e non solo”.
Nel 2002, in un discorso agli studenti del Pontificio Istituto Biblico, il cardinale la ricordava così: “(…) la ‘Cattedra dei non credenti’ (…) non è di per sé un’iniziativa biblica, ma nasce dalla Scrittura. ‘Dice l’empio: non c’è Dio’, dunque ascoltiamo l’empio. Cioè chiamiamo in cattedra i non credenti a spiegarci perché non credono. Poi non facciamo con loro un dibattito apologetico o una conferenza, cerchiamo di ascoltarci. Con la percezione che c’è in ciascuno di noi, almeno in me, una duplice personalità: un credente e un non credente che continuamente fa obiezioni, pone domande, problemi”.
Su Il nostro tempo del 17 ottobre 1993, l’arcivescovo esaltava il dubbio come “quell'esercizio dello spirito che in questi anni a Milano ha avuto il nome un po’ provocatorio di ‘Cattedra di non credenti’. (…) Ho organizzato questi incontri partendo dall’ipotesi che c’è in ciascuno di noi una parte credente e una non credente, o almeno resistente alla fede. (…) I due si parlano, si contrastano, si confrontano. Ciascuno di noi dà poi la prevalenza all'uno o all'altro dei due atteggiamenti, ma quello opposto gli rimane dentro. Il non credente sente una domanda di certezza, il credente viene vessato dalle ombre del dubbio”.
È evidentissimo che, secondo le stesse parole del cardinale, dal confronto, è proprio il credente, “vessato dalle ombre del dubbio”, a uscire malridotto dal confronto.
Non consta che alcuno dei personaggi portati in cattedra da Martini abbia poi dato mostra di aprirsi alla fede cattolica. Non uno dei grandi intellettuali agnostici, atei, eretici o di altre religioni che lo hanno osannato in vita e in morte l’hanno trovato così attraente da arrendersi a Cristo.
Del resto, il cardinale non lo chiedeva - proseguono Palmaro e Gnocchi – “impugnando il dubbio come un pastorale, ha sempre preferito viaggiare sul filo dell'ambiguità pensando bene di sospingere le pecore oltre gli steccati dell’ovile e soprattutto, di mantenervi fuori quelle che già erano uscite.
Alla ‘stessa barca’ di un don Verzé ossessionato da una Chiesa che non rincorre abbastanza velocemente la scienza, il cardinale consegna i suoi “non so”, “non voglio giudicare” vuoti di dottrina e di speranza”.
Di barca in barca, siamo arrivati alla brutta faccia della morte per Covid-19 pare tutto un grande dèjàvu.
Con in più la differenza che la paura fa novanta e allora di questo Gesù (ai cui tempi non esistevano i registratori, ricordiamolo) su cui era facile ironizzare fino al 9 Marzo scorso, di colpo si dice di ‘fidarsi.
Là sulla stessa barca del dubbio, la novità è che adesso, di Gesù, tutti insieme, con un gran bello sforzo di volontà - giacché del Dio vero e Trino poco è rimasto - dobbiamo ‘fidarci’.
Non è proprio detto che ci si debba credere, tuttavia, una volta - ai tempi che in non credenti in cattedra non ci salivano - si faceva così: visto mai che avessero ragione quei poco illuminati dei nostri padri e nonni?
(immagine: J.W.Turner)