Un uomo che vive della grazia altrui si deve considerare come un essere dipendente. Inevitabilmente la mia vita ha un fondamento fuori di sé quando essa non è una mia propria creazione”.
Questa argomentazione svolta da Marx nei suoi Manoscritti, assecondata dall'ubriacatura scientista, come pure da una strumentale lettura della pratica psicoanalitica, ha dilagato e pervaso il sentire comune della ‘modernità’.
In questo clima antropologico totalmente sfalsato a cui la Chiesa nei suoi membri anche autorevoli ha prestato sovente implicito consenso, il concetto di redenzione è sicuramente diventato quanto mai ambiguo.
“La redenzione avviene dunque - chiedeva apertamente Joseph Ratzinger - per mezzo della liberazione da ogni dipendenza, oppure l’unica via che porti alla liberazione altro non è che la completa dipendenza dall'amore che è principalmente verità”?
In un mondo che propende decisamente per la prima accezione, occorre instaurare rapporti nei quali nessuno debba più essere grato all'altro, ma ciascuno debba piuttosto dipendere esclusivamente da sé stesso.
Chi continua a partecipare all'Eucarestia, deve obbligatoriamente scegliere tutt'altra strada.
Soltanto chi, capace di gratitudine innanzitutto verso i propri legami fondamentali e volendo soprattutto una cosa, l'amore, sceglie la verità, solo questi può celebrare il culto.
Senza riconoscimento della verità - che è apertura all’essere - e, quindi, gratitudine perché, pur non potendola noi esaurire mai nella sua pienezza, è diventata - come ricorda Guardini - un concreto-vivente, Gesù Cristo, noi non celebriamo mai un vero culto, bensì pur partecipando alle celebrazioni, la Liturgia non cesserà di essere un esercizio estetico o una sorta di autocertificazione comunitaria, quando non un vero patetico indottrinamento pragmatico.
Il culto è conformità all'essere e, giacché la libertà vera dell'uomo è essenzialità, conformità all'essere che non ci siamo dati da soli, ecco che il culto è il luogo della libertà.
Non si tratta di una fissazione archeologistica, quando si prova sgomento assistendo a celebrazioni liturgiche in cui un Dio, ritenuto ‘impalpabile’ è divenuto in ultima istanza un puro riflesso della nostra propria volontà.
Occorre desiderare stanare la nostra personale risposta ad un Altro da ogni nascondiglio fornito dalla ostinata affermazione di sé.
La celebrazione eucaristica altro non deve essere che il luogo dove Egli sta di fronte a noi, così come Egli è.
Il grande problema liturgico, in fondo, non è tanto l’invenzione sempre più smart della captazione dell'attenzione dei fedeli, ovvero il rincorrerli in quello che viene considerato il loro ‘quotidiano’, perché non sentano come una cosa noiosa e parallela la partecipazione alle celebrazioni.
In realtà la cosa veramente noiosa è continuare dentro una chiesa a ritrovare e rivivere tutto quello che già viviamo nel quotidiano.
Non erano fanatici del lavoro artigianale i nostri antenati quando si industriavano a produrre pianete perché il sacerdote indossasse vere e proprie opere d’arte, arricchite da sontuosi ricami e passamanerie, all'atto della celebrazione. In particolare, dando un tempo le spalle ai fedeli, si squadernava agli occhi di chi assisteva un mondo di meraviglie, sostenute da un paio di deboli e semplici spalle umane.
Era - per occhi non ancora obnubilati da immagini bombardanti e futili come quelle che sopportano i nostri occhi oggi - l'invito a sentirsi partecipi di un anticipo di Paradiso. Questo era lo scopo delle pianete con i loro ricami preziosi.
Concludo per ora, ricordando le frasi entusiaste con cui un sacerdote ricordava le scoperte a cui un suo docente di teologia fondamentale in seminario aveva condotto lui ed i suoi compagni di ginnasio, tanto da continuarne a parlarne tra di loro a lezioni terminate: “Un altro mondo dentro questo mondo”!
Ancora anni e anni dopo, durante i suoi corsi di apologetica, di meglio non riusciva ad esprimere riguardo lo ‘spiazzamento’ dell’Incarnazione nella fede cristiana: un altro mondo entrato in questo ondo.
Ed è di questo che la Liturgia si deve incaricare. Non di farci varcare le soglie di chiese più o meno opere d'arte per poi ritrovarci dentro lo stesso mondo appena lasciato entrando. Un mondo che non ha bisogno di essere duplicato, bensì spiegato e, possibilmente, giustificato.
Reso giusto, cioè, data l'umana impossibilità di viverne anche solo una minima parte senza sminuirne il valore.
La cerimonia liturgica - dice il Vagaggini - deve condurre i cristiani a vibrare, come soggettività individuali e personali, dinanzi alla maestà trascendente dell'oggetto narrato dal culto.
Questa maestà deriva unicamente dalla realtà che esprime, non dalla psicologia con cui il soggetto si pensa debba farla sua: realtà cristica, sacrificale, sacramentale, comunitaria, ecclesiale.
Occorre permettere di farne il proprio mondo interiore, sempre sotto il primato dell’oggetto il quale ne è e ne deve essere elemento determinante e regolatore.